In psicologia, un modello molto interessante è quello definito affect as information. Secondo questo modello le persone tendono a inferire informazioni su fatti, fenomeni, condizioni a partire dal proprio stato affettivo-emozionale. L’emozione, dunque, viene utilizzata come informazione che orienta le conoscenze e, soprattutto, conferma la bontà/verità delle conoscenze che hanno dato origine alla stessa emozione. Ad esempio, alcune persone tendono a inferire un pericolo a partire dall’ansia che provano (= se mi sento ansioso, vuol dire che c’è qualcosa che causa la mia ansia e la giustifica).
Penso sia molto interessante applicare questo modello alla sfera della psicologia della religione e a quella della psicologia dell’amore.
Nel primo caso, mi capita spesso di osservare persone che deducono l’esistenza e la presenza di Dio nella loro vita in base ai sentimenti e alle sensazioni che provano nei suoi riguardi. Il meccanismo è di questo tipo: dal momento che sento intensamente la presenza di Dio/provo sensazioni fortissime, mistiche nei suoi confronti, Dio deve esistere, ergo esiste. Mi è capitato di imbattermi in persone che hanno sperimentato la presenza di Dio così intensamente da piangere. “Vedi?”, mi hanno detto. “Se piango così, come puoi dire che Dio non esiste?”.
Nel secondo caso, uomini e donne ricavano una “predizione” sul futuro delle loro relazioni amorose in base a ciò che provano per la persona amata. Il meccanismo funziona così: ciò che provo per questa persona è così speciale che sicuramente la nostra relazione durerà per sempre/saremo sempre felici insieme. Purtroppo, è facile constatare che a questa sicumera affettiva non corrisponde sempre ciò che si sente. Ognuno di noi conosce persone costrette a disilludersi dopo un certo periodo, nonostante l’iniziale certezza affettiva.
Confondere affect per information è una fallacia estremamente diffusa a cui tutti noi cediamo prima o poi e che ha equivalenti precisi nella cultura popolare come il detto “Segui il tuo cuore”, reso popolare da Susanna Tamaro e Pocahontas, o il verso della canzone If it makes you happy di Sheril Crow “If it makes you happy, then it can’t be that bad” (“Se ti fa sentire felice, non è poi tanto male”).
Purtroppo, in religione e in amore, sentirsi happy non garantisce affatto che non ci sia qualcosa di bad. Anche se tutti dicono (e cantano) il contrario.
Molto interessante dottore. Nella pareidolia, anche austica, ho imparato da lei, inferiamo significati che non ci sono. L’utilità evolutiva della pareidolia visiva é ovvia, mentre quella acustica é probabilmente un “effetto collaterale” del nostro essere animali che vogliono capire. L’affect as information mi ricorda invece un rigurgito delle strutture sottocorticali che dicono alla corteccia frontale: “ricorda che, alla fine, comando io”. Cari saluti.
Un’interpretazione molto interessante, da approfondire!