Le riflessioni sull’anima e la sua essenza accompagnano da sempre le speculazioni teologiche e filosofiche degli uomini. Le risposte variano, naturalmente, da sistema religioso a sistema religioso e da sistema filosofico a sistema filosofico. L’anima coincide con lo spirito, la mente, la coscienza, la psiche, il respiro? È il principio che “soffia” la vita in un corpo che altrimenti sarebbe del tutto inerte? È l’essenza spirituale dell’uomo? Quello che gli induisti chiamano Ātman, gli antichi egizi ba, ka e akh e che i cristiani identificano con una entità destinata a essere immortale?
Del resto, nessuno ha visto o toccato l’anima, nessuno sa come dovrebbe essere fatta e che rapporto esattamente abbia con il corpo fisico. Si può ben dire che tutti ne parlano senza sapere esattamente di che cosa parlano, tanto che alcuni pensatori ritengono che in realtà non esista e che, se continua a sopravvivere nel linguaggio comune e specialistico, è più per il radicato pregiudizio cartesiano in forza del quale, come per un’abitudine difficile da scrollare, perseveriamo nel distinguere lo spirito dalla materia che perché alla sua nozione corrisponda effettivamente qualcosa di reale.
Difficilissimo sarebbe anche provarne l’esistenza tanto che questa è oggi relegata tra gli articoli di fede piuttosto che tra gli “oggetti” da indagare con i metodi della scienza. Eppure, proprio in piena epoca positivistica, qualcuno provò a ragionare su di essa in termini scientifici, arrivando al punto di (credere di) aver dimostrato addirittura la sua ponderabilità. Questo “qualcuno” fu il medico statunitense (del Massachusetts, per la precisione) Duncan MacDougall (1866 – 1920), ricordato dalla storia (solamente) per il suo convinto tentativo di misurare con precisione il peso dell’anima, considerata come entità dotata di sostanza. L’articolo in cui MacDougall avanzò il suo tentativo ha per titolo Hypothesis concerning soul substance together with experimental evidence of the existence of such substance e fu pubblicato nel 1907 sia sul «Journal of the American Society for Psychical Research» sia sulla rivista «American Medicine». La sua fama, però, è dovuta, come spesso accade, più che alla solidità del suo contenuto a una serie di fattori contingenti che possiamo tentare di elencare: 1) lo spazio che i mass media del tempo vi dedicarono in seguito alla pubblicazione, l’11 marzo 1907, di un articolo del «New York Times» seguito da un contributo del «Washington Post» e da quelli di altre riviste; 2) i commenti e le polemiche che seguirono a tale visibilità concessa dalla stampa; 3) la bizzarria macabra del tema che incuriosiva le persone come il miele incuriosisce le mosche; 3) il successo, in epoca contemporanea, di un film come 21 grammi (2003) del regista messicano Alejandro González Iñárritu che ha richiamato, almeno vagamente, l’esperimento di MacDougall, rendendolo di nuovo celebre in tutto il mondo; 4) l’indubbio fascino di un tema come quello dell’essenza dell’anima che, lo abbiamo già ricordato, ammalia filosofi e religiosi da millenni.
Come detto, l’esperimento di MacDougall è, in realtà, poca cosa e non merita di essere perpetuato se non come una bizzarra, macabra curiosità. Il suo interesse, tuttavia, è dato anche dall’argomentazione che pervade l’intero scritto; argomentazione che ritroviamo, mutatis mutandis, in tanti sostenitori contemporanei di pseudoscienze e pseudomedicine. In sintesi, MacDougall parte da una tesi precostituita, debolmente puntellata, ma ampiamente diffusa: la tesi dell’esistenza dell’anima. La ammanta di un linguaggio medico e scientifico per conferirle autenticità. Così addobbata, ricorre al trucco dell’argumentum ad ignorantiam per trarne una conclusione spacciata per vera. Infine, interpreta gli esiti dei suoi esperimenti, metodologicamente pasticciati e superficialmente condotti, come sostegno improprio della sua tesi, rimandando ad altri test la dimostrazione definitiva del peso dell’anima.
Per MacDougall, l’anima è un corpo che occupa uno spazio, più precisamente «deve consistere in una forma di materia gravitazionale o, forse, di una sostanza a metà strada tra la materia gravitazionale e l’etere». È questa sostanza a costituire «la base dell’identità personale continua e della coscienza, perché senza una sostanza che occupa lo spazio, la personalità o un ego conscio continuo dopo la morte del corpo sarebbero inconcepibili». Notate la fallacia di questa affermazione. Qualcosa non esiste solo perché la sua inesistenza mi risulterebbe inaccettabile o annienterebbe le mie idee sulla vita dopo la morte. La scienza non si basa sul desiderio. Questa “fallacia ottativa” – come potremmo chiamarla – è alla base di molte dottrine religiose, ma affermare che la mia vita non avrebbe senso se non venisse vissuta con la mia ragazza dei sogni, non renderebbe per ciò vero l’essere immaginario da me tanto amato. Allo stesso modo, asserire l’inutilità della vita in assenza di Dio e della vita eterna non rende meno discutibile l’essere soprannaturale per eccellenza.
Continua MacDougall: «Il risultato finale degli esperimenti condotti su esseri umani è che, al momento della morte, si verifica una diminuzione di peso inspiegabile per via ordinaria. Si tratta della sostanza di cui è composta l’anima? Ritengo di sì. In base alla nostra ipotesi, una tale sostanza è necessaria all’assunto della continuità e della persistenza dell’individualità dopo la morte fisica». Vale a dire, dal momento che non so spiegare questo improvviso calo di peso, esso DEVE essere attribuito al venir meno della sostanza di cui è composta l’anima. A pensarci, è lo stesso assunto che fanno proprio molti credenti per “spiegare” ciò che non sanno spiegare altrimenti: i medici dicono che non c’è spiegazione alla mia guarigione, QUINDI deve essere stato Dio; il camion mi ha schivato miracolosamente, QUINDI deve essere avvenuto per opera del Signore. Si tratta di una variante del già menzionato argumentum ad ignorantiam che consiste nell’asserire che qualcosa è vero solo perché non si hanno prove del fatto che sia falso. Allo stesso modo, MacDougall afferma che la diminuzione di peso dei suoi pazienti moribondi è dovuta, in assenza di conoscenze di senso contrario, all’anima che fugge via dal corpo: l’ignoranza sulle cause di una fatto fisico – la perdita di peso – diventa la prova di un fatto religioso.
La tesi di MacDougall è del tutto fallace anche da un punto di vista scientifico e metodologico. L’ipotesi di partenza, come detto, è vaga e fragile; le premesse “teologiche” discutibili, se non fallaci. È assente un rigido protocollo sperimentale. Il campione di riferimento è assolutamente insoddisfacente e privo di significatività: gli esperimenti prendono in esame solo sei casi, ognuno dei quali produce risultati diversi. In altre parole, gli esiti degli stessi sono assolutamente privi di uniformità, anzi MacDougall stesso riconosce che il secondo, il quarto e il sesto esperimento furono condotti in maniera insufficiente e che, in generale, sarebbero stati necessari molti più esperimenti per ottenere conclusioni di un qualche valore. Gli stessi esperimenti furono condotti su quindici cani e i risultati furono uniformemente negativi: non vi fu alcuna diminuzione di peso al momento della morte. Ma anche in questo caso, interpretabile forse nel senso che gli animali non hanno un’anima, lo stesso MacDougall riconosce che gli esiti furono “viziati” dai farmaci somministrati agli animali per “tenerli buoni” (in seguito, MacDougall venne addirittura accusato di aver avvelenato i cani per condurre gli esperimenti con maggiore facilità).
Non è finita. Il momento cruciale della morte, perno di tutte le disquisizioni di MacDougall, al di là delle sicumere enunciatorie, è tutt’altro che facile da definire con precisione e questa difficoltà emerge ripetutamente nel corso degli esperimenti. Lo strumento della bilancia a piattaforma adoperata dal medico americano appare amatoriale, per usare un eufemismo. La conduzione degli esperimenti sembra grossolana e pasticciata. I limiti etici sono evidenti e biasimevoli, pur tenendo conto dei tempi, e il riferimento alle precauzioni adottate in fase sperimentale («L’esperimento non ha inflitto ai pazienti ulteriori sofferenze») e alle interferenze subite durante l’esecuzione delle prove sta a dimostrarlo. I test sui cani – un gruppo di controllo? – emergono in tutto il loro sadismo. Insomma, il buon MacDougall non ne indovinò una. Il disperato tentativo di conciliare lo spirituale con il materiale, la teologia con la scienza positivistica, la religione con il laboratorio fallì miseramente, irretito dalle sue inevitabili contraddizioni e forzature.
Infine, l’elemento più noto dell’esperimento di MacDougall. Quanto pesa l’anima? Tre quarti di oncia, risponde il medico statunitense; che corrispondono ai famosi 21 grammi (21,3 per essere precisi) del film di Alejandro González Iñárritu. Ma il dato è del tutto risibile. Se si va a leggere l’articolo, si apprende che tre quarti di oncia è il numero che scaturisce unicamente dal primo caso, non essendoci, come detto, alcuna uniformità nei risultati.
Allora, perché questi esperimenti ebbero tanto successo al punto da essere ricordati ancora oggi? Come detto, il ruolo dei quotidiani del tempo, il film 21 grammi, la bizzarra curiosità dell’esperimento (come sanno gli esperti di mnemotecnica, quanto più una cosa è strana e insolita, tanto più è facile ricordarla), lo scalpore spesso provocato dalla cattiva scienza, le polemiche cui gli esperimenti diedero vita e il fascino del tema del peso dell’anima hanno tutti contribuito in maniera determinante a costruire la leggenda dei “21 grammi”; la quale, però, non sarebbe viva se non si fosse incistata indistruttibilmente nella credenza popolare che, come è noto, privilegia il fantastico e l’improbabile a scapito della verità, semplicemente perché ne è maggiormente attratta.
Leggi qui la mia traduzione dell’articolo di MacDougall con una introduzione “di peso”.