È vero che gli atei si convertono in punto di morte?

In un mio post precedente, ho esaminato la cosiddetta “fallacia del capezzale” (Deathbed Fallacy), l’idea errata secondo cui ciò che si afferma, pensa, sente quando si è in punto di morte ha un valore generalmente superiore a ciò che si afferma, pensa, sente in altri momenti della vita, tanto da poter assurgere a regola etica assoluta che chiunque dovrebbe condividere se desidera vivere una vita migliore.

Concludevo, al termine della mia disanima, che le confessioni, i pentimenti e le conversioni in punto di morte, cui spesso tendiamo ad attribuire grande valore, non sono sempre da giudicare attendibili o, addirittura, come comprovanti la verità del credo in cui ci si converte, di ciò che viene confessato o di ciò di cui ci si pente e richiamavo l’inglese Robert Cooper, autore, a metà del XIX secolo, di un pamphlet intitolato Death-Bed Repentance; Its Fallacy and Absurdity when Applied as a Test of the Truth of Opinion; With Authentic Particulars of the Last Moments of Distinguished Free-Thinkers (1852) ossia Pentimento in punto di morte. Sua fallacia e assurdità quando utilizzato come prova della verità di una opinione. Con i resoconti autentici degli ultimi momenti di illustri liberi pensatori.

Ho tradotto il pamphlet di Cooper per la prima volta in italiano, almeno a mia conoscenza, e voglio offrirlo ai miei lettori nella convinzione che abbia ancora molto da dirci.

Non sappiamo molto di Robert Cooper. Sappiamo che fu il segretario di Robert Owen (1771-1858), uno dei più noti rappresentanti di quel movimento denominato “socialismo utopico” che, nell’Ottocento, diede vita a diversi esperimenti comunitari e cooperativi, come alternativa alle forme di organizzazione capitalistica che, già allora, stavano mutando radicalmente la società occidentale. Sappiamo anche che Cooper fu direttore del mensile a vocazione laica e materialista «The London Investigator» e che tenne apprezzate conferenze sui temi della Bibbia e l’immortalità dell’anima e sull’analisi delle Sacre Scritture. Morì il 3 maggio del 1868 (Foote, 1888).

Death-Bed Repentance ha una finalità polemica. Il suo obiettivo è smascherare le menzogne dei credenti sugli ultimi momenti di vita dei grandi liberi pensatori dell’umanità. Un diffuso luogo comune, propagato dagli stessi “pii devoti”, era – ed è ancora, per certi versi – che perfino gli atei più incalliti, in punto di morte, si ravvedono e si convertono; circostanza che dimostrerebbe la superiorità morale della religione sul libero pensiero: se, infatti, nel momento decisivo della loro esistenza, coloro che non credono rinnegano il proprio ateismo o agnosticismo, ciò vuol dire che la religione ha sempre l’ultima parola.

Cooper analizza, smontandolo, questo luogo comune in base agli argomenti sopra esposti a cui aggiunge una disamina, su base documentale, degli ultimi istanti di vita di alcuni importanti pensatori a cui la propaganda cristiana attribuisce una conversione sul letto di morte. I nomi citati sono rilevanti: Thomas Paine (1737–1809), Voltaire (1694–1778), David Hume (1711 –1776), Edward Gibbon (1737 –1794) e altri ancora. Nessuno di essi si convertì al momento del trapasso, ma su ognuno di essi la propaganda cristiana ha imbastito menzogne interessate – disinformazione pura e semplice – per accreditare le proprie credenze e per mostrare ai “sopravvissuti” che è necessario pentirsi delle proprie malefatte dal momento che la morte riguarda tutti e tutti dovranno rispondere nell’aldilà del proprio operato su questa Terra.

Snocciolando testi e testimonianze, Cooper mostra come, in realtà, nessuno dei grandi pensatori atei o agnostici a cui vengono attribuiti pentimenti in punto di morte ha mai cambiato idea in argomento. Il “teatrino del capezzale” messo su dalla Chiesa ha solo lo scopo di turbare le coscienze delle masse più sprovvedute e piegarle al proprio credo, sfruttando la paura della morte che affligge ogni essere umano per il fatto di essere tale.

Solo il socialismo, per Cooper, è in grado di garantire ai suoi discepoli il superamento dell’orrore della morte perché solo il socialista, da vero uomo illuminato, alieno da ogni superstizione e irrazionalità, è consapevole che la morte rappresenta una fase necessaria e ineludibile dell’esistenza umana, il destino inevitabile dell’umanità.

Citando Shelley, Cooper è convinto che “la morte non è nemica della virtù”. Il socialista è un individuo virtuoso «il cui unico desiderio è quello di eliminare i mali e le miserie» del mondo. Il socialista sa che le piaghe che affliggono l’umanità non sono inevitabili, non esistono per decreto divino, ma hanno come origine fatti umani e sociali che possono essere rimossi come ogni prodotto concepito dall’uomo.

Cooper avrebbe, forse, potuto citare Epicuro: «Il male, dunque, che più ci spaventa, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi lei non c’è, e quando lei c’è noi non ci siamo più». Ma il rapporto vita-morte, per il giornalista inglese, non è solo di mutua esclusione: il socialista ha la consapevolezza che sono i meriti ottenuti in vita a dare senso alla morte, è la virtù conquistata quando si respira e si lotta a conferire significato all’esistenza, per quanto effimera e costantemente minacciata dalla morte essa sia.

E se pure esistesse un paradiso, conclude Cooper, il socialista, al pari di tutti coloro che stimano la verità e che si adoperano per migliorare il mondo in cui vivono, avrebbe tutto il diritto di esservi e di godere delle sue delizie. Ritengo che, se sostituissimo a “socialista” un qualsiasi termine che significhi rettitudine morale e virtù sociale, potremmo continuare a condividere le considerazioni del direttore del «London Investigator».

Lo stesso Cooper fu sempre un coerente e convinto materialista e non ritornò mai sui propri passi. Anzi. Il «National Reformer» del 26 luglio 1868 contiene le seguenti parole da lui scritte proco prima di morire:

In un momento in cui la mano della morte è sospesa su di me, le mie opinioni teologiche rimangono immutate; mesi di profonda e silenziosa riflessione, nonostante la pressione di una lunga sofferenza, le hanno confermate piuttosto che modificate. Attendo con calma, quindi, ogni possibile pericolo associato a queste convinzioni. Consapevole che, se pure fossi in errore, avrei comunque la sincerità dalla mia parte, non temo alcuno danno derivante da percezioni a cui mi è impossibile resistere.

Fedele fino alla fine all’esempio dei grandi uomini citati nel suo pamphlet, Cooper affidò il proprio credo alla sua opera e alle sue parole. Ci lascia un insegnamento destinato a scontrarsi con il luogo comune popolare, ma denso di scomoda verità:

Dovremmo considerare le opinioni di un uomo quando questi è convalescente, non quando è malato. Dovremmo chiederci cosa ha detto, non in punto di morte, ma quando era veramente sé stesso, e le sue azioni erano caratterizzate da vigore ed energia.

Qui il testo integrale del pamphlet di Cooper con una mia introduzione.

Buona lettura!

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La sociologia come arma del demonio

Nelle lettere di Berlicche di Clive Staples Lewis (1898-1963), scrittore, saggista e teologo britannico, autore delle celebri Cronache di Narnia, il demone Berlicche consiglia al nipote Malacoda, desideroso di apprendere i metodi migliori per perdere l’anima degli uomini, di non usare le scienze come difesa contro il cristianesimo. «Quelle scienze altro non potrebbero fare che incoraggiarlo a pensare alle realtà che non può toccare né vedere. […]. Se deve guazzar nella scienza, mantienilo nell’economia e nella sociologia; non permettere che si allontani da quell’impagabile “realtà della vita”» (Lewis, 1998, p. 8). Le scienze – vere – costringono gli uomini a prestare attenzione ai problemi dell’universo, allontanandoli dalla «corrente delle immediate esperienze sensibili» (Lewis, 1998, p. 6). Economia e sociologia, invece, sono immerse fino al collo nell’esperienza dei sensi, circostanza che le rende adeguate a soddisfare gli scopi di Satana.

«Il tuo lavoro» dice Berlicche a Malacoda «dev’essere quello di fissare la sua [dell’uomo] attenzione su questa corrente. Insegnagli a chiamarla “la realtà della vita”, senza permettere che si chieda che cosa intende dire quando dice “realtà”» (Lewis, 1998, p. 6).

Per dannare l’uomo, è preferibile che questi non rifletta su ciò che è straordinario e impercettibile ai sensi – all’aldilà – ma rimanga nell’ordinario, nella realtà quotidiana come appare ai suoi occhi. Dal momento che economia e sociologia sono scienze dell’ordinario, esse possono essere utili allo scopo di deviare i pensieri dell’uomo da ciò che conta davvero – ad esempio, Dio – per lasciarli imputridire in ciò che è terrestre, sensibile e quotidiano.

Economia e sociologia diventano, dunque, in Lewis, scienze della perdizione umana, armi del diavolo per condannare l’umanità all’Inferno.

In realtà – potremmo obiettare a Lewis – “Dio” si nasconde spesso proprio nell’ordinario, nell’abituale, nel quotidiano e il compito della sociologia è quello di dimostrare come anche l’ordinario, l’abituale e il quotidiano siano più complessi di quanto sembrino e celino spesso meccanismi “divini” che presiedono a quelle “immediate esperienze sensibili”.

Le scienze “dure”, allontanando uomini e donne da ciò che è sensibile, possono risultare molto più utili alla causa del demonio di quanto Berlicche pensava. È nella vita di tutti i giorni che le persone sono immerse ed è lì che, metaforicamente, si può scoprire l’essenza della divinità.

Parafrasando una nota battuta (“Il più grande inganno del demonio consiste nel farci credere che esso non esiste”), potremmo dire: Il più grande inganno del demonio consiste nel farci credere che la realtà sia meramente ordinaria. E che non abbia nulla a che fare con la divinità. Ma a questo ci pensa la sociologia.

Fonte:

Clive Staples Lewis, 1998, Le lettere di Berlicche, Mondadori, Milano.

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Il Capodanno è sempre iniziato il primo gennaio. O no?

Le scienze sociali hanno, da sempre, la capacità di riportare credenze consolidate e luoghi comuni alle loro radici storico-culturali e di mostrane il carattere di costruzione sociale, troppo spesso trascurato.

Che cosa c’è di più ovvio, almeno apparentemente, che credere che il Capodanno inizi universalmente il primo gennaio? Eppure, la storia e l’antropologia culturale ci dicono che le cose non stanno in questi termini o, almeno, non lo sono sempre state.

Come riferisce lo studioso di antropologia Claudio Corvino,

quando il Cristianesimo si impiantò nell’Impero [romano], i Romani facevano cominciare l’anno con le calende di gennaio, il primo giorno di questo mese, controllato dal dio eponimo Giano, che presiedeva il delicato passaggio da un anno all’altro. Martino di Braga (morto nel 580), basandosi sul passo del Genesi secondo cui Dio “separò la luce dalle tenebre” (1, 4-5), osservò che, se la separazione implicava anche l’eguaglianza (un padre giusto dividerà sempre equamente le cose), allora l’inizio del mondo e quindi dell’anno non poteva che essere il 21 marzo, giorno equinozio di primavera, quando le ore di luce e di tenebra sono equivalenti. In Francia, invece, e nei suoi domini, si preferì la Pasqua come Capodanno. Essendo una festa mobile, che si celebrava la domenica successiva al primo plenilunio dopo il 21 marzo, aveva il fondamentale vantaggio di non poter essere collegata ad alcuna festa pagana. Ma non fu mai un uso universale e nella stessa Francia fu abbandonato quando Carlo IX, nel 1564, decise di ritornare al primo gennaio.

In quel che rimaneva dell’impero bizantino, invece, il Capodanno si festeggiava il 1° settembre, mentre a Roma e nei suoi possedimenti si preferiva il 25 dicembre. Ma già nella vicina Firenze era il 25 marzo e nella serenissima Repubblica di Venezia, fino alla sua caduta nel 1797, il 1° marzo.

Una delle caratteristiche dei fatti sociali è che, una volta istituzionalizzati, tendono a offrirsi allo sguardo umano come cose-che-sono-sempre-state-così-e-non-altrimenti, come realtà esterne “dure”, niente affatto costruite e, dunque, immodificabili, destinate all’eternità. La sociologia, in virtù di una sua peculiare indole “archeologica”, scava al di là di queste fondamenta incrollabili che si offrono al nostro sguardo, rivelandone il carattere artificiale. Ciò che l’umanità costruisce, il sociologo può decostruire, rendendo in questo modo un grosso favore alla società, consapevole che le sue realizzazioni non sono fisse, ma plasmabili a volontà.

E sa proposito di festività, sapete che l’epifania non esiste in parti del mondo come Regno Unito e Stati Uniti? Un altro duro colpo a ciò che passa per senso comune nella nostra società italiana.

Riferimento

Corvino, C., Petoia, E., 2004, Storia e leggende di Babbo Natale e della Befana, Newton Compton Editore, Roma, p. 105.

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La bellezza salverà il mondo?

red leaf trees near the road

Nel Discorso 241 (405-410) “Nei giorni di Pasqua sulla risurrezione dei corpi, contro i pagani”, sant’Agostino (354-430) scrive che per i filosofi pagani la bellezza dell’universo costituiva un richiamo a ricercare l’Artefice delle cose e che la bellezza della terra, del mare, dell’aria rarefatta, del cielo e dell’ordine delle stelle permetteva di risalire a Dio. Per il santo di Ippona, la pulchritudo dei è una forza salvifica in grado di trasformare il mondo. Essa non è solo una caratteristica estetica, ma rimanda ai concetti di grazia, armonia, equilibrio del tutto. La bellezza avvicina a Dio perché è una qualità che Dio stesso ha conferito al creato. Tramite essa, gli esseri umani sono tutt’uno con il loro creatore.

Quest’idea influenzò sicuramente Fedor Dostoevskij (1821-1881), il quale, nell’Idiota (1868), fa dire a Ippolit in conversazione con il principe Myskin, le seguenti parole:

È vero, principe, che una volta diceste che il mondo sarà salvato dalla bellezza? Signori – si mise a gridare a tutti – il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza! E io affermo che ha idee così giocose perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato; me ne sono convinto poco fa, appena è entrato. Non arrossite, principe, mi fareste pena. Quale bellezza salverà il mondo? È Kolja che me l’ha riferito… Siete un fervente cristiano? Kolja dice che voi stesso vi dite cristiano. Il principe l’osservò con attenzione, ma non rispose (Dostoevskij, 1988, pp. 857-858).

Giacché il principe Myskin non risponde alla domanda di Ippolit, ancora oggi gli esegeti del grande scrittore russo continuano a porsi domande su quale senso attribuire a questo passo dell’Idiota. In particolare, a quale bellezza fa riferimento Ippolit? Alla bellezza di una donna (come sembra lasciare intendere l’allusione all’innamoramento di Myskin)? Alla bellezza della natura? Alla bellezza dell’arte, del cosmo, della letteratura, della cultura, degli esseri umani? Non possediamo una risposta definitiva a questi interrogativi perché non sappiamo quale idea di bellezza avesse in mente Dostoevskij in questo passo.

Se, tuttavia, Dostoevskij non si pronuncia sull’argomento, lasciando il lettore con più di un’incertezza sul senso dell’interrogativo di Ippolit, non sembrano avere alcun dubbio i tanti filosofi, insegnanti, moralisti, pedagogisti, funzionari pubblici, esperti d’arte, giornalisti, artisti e persone comuni che oggi ripetono psittacisticamente la frase “La bellezza salverà il mondo”, come se essa contenesse una sua saggezza intrinseca, a tutti evidente, che l’incessante reiterazione serve solo a confermare. A ciò contribuisce inevitabilmente anche il fatto che il termine “bellezza”, dotato com’è di una sua inattingibile astrattezza olimpica, comunica una positività tanto immediata quanto indeterminata, con cui è difficile non entrare in sintonia.

Ma cosa significa davvero “La bellezza salverà il mondo”? Che cos’è questa bellezza capace di salvarlo?

Implicita nei discorsi dei fautori della bellezza è la convinzione che chi contempla il bello elevi il proprio spirito e si senta attirato verso l’alto, mentre chi contempla il brutto, degrada il suo spirito e si sente attirato verso il basso. Contemplare il bello esalta e nobilita. La magnificenza del bello conduce al divino, alla trascendenza. Anzi, la bellezza è salvezza e, quindi, coincide con la stessa divinità perché solo la divinità salva. La bellezza assume, dunque, un significato soteriologico: la bellezza salva e il salvato assurge dalla condizione di reietto, alienato, degradato, alla più sublime altezza. Non solo. Alla bellezza sono attribuite funzioni di riscatto e avanzamento morale. La bellezza diventa l’antidoto all’assenza di speranza, alle perenni umiliazioni della vita, alla presenza avvilente del male, all’inanità del quotidiano. Attraverso l’arte, la letteratura, la poesia, il teatro, il cinema – questa è la persuasione dei “fautori della bellezza” – si possono compiere miracoli per l’affrancamento e il miglioramento di chi vive in condizioni di miseria materiale e morale. “Abbandonatevi al bello, lasciatevi abbacinare dalla bellezza, e la vostra vita sarà migliore”, questo in definitiva il messaggio di chi crede nel dogma della bellezza salvatrice.

Ma le cose stanno davvero in questi termini? Proviamo a sottoporre al tribunale della ragione le pretese di chi ritiene che “la bellezza salverà il mondo”.

Alla base di questo topos della contemporaneità si trova l’idea fallace che la bellezza sia qualcosa di immediatamente percepibile sul cui riconoscimento tutti convergono univocamente in virtù di qualche facoltà innata e caratteristica del nostro essere umani.

In realtà, non esiste una bellezza assoluta e fuori dal tempo. Come dicono gli anglofoni, Beauty is in the eye of the beholder, ovvero “La bellezza è nell’occhio di chi guarda”. Ne era già consapevole nel XVIII secolo, il filosofo David Hume (1711-1776), il quale, nello scritto Of the Standard of Taste (1760), affermava: «La bellezza non è una qualità delle cose in sé: essa esiste meramente nella mente che le contempla; e ogni mente percepisce una bellezza differente. Un individuo può perfino avere un’impressione di deformità, laddove un altro ha un’impressione di bellezza».

Nell’arte, ad esempio, è noto che alcune rappresentazioni artistiche un tempo considerate brutte o discutibili (si pensi ai quadri di Van Gogh e Picasso) sono oggi considerate belle, mentre alcuni modelli di bellezza, come le donne dei dipinti di Rubens, non sono più attuali oggi (Pulvirenti, E., 2005). Come negare, poi, che anche la bruttezza esercita un suo fascino estetico e che alcune forme di deformità o mostruosità possono indurre pensieri elevati e nobili sulla vita e sull’arte al pari delle forme più armoniche?

Probabilmente, la formulazione più concisa ed efficace dell’idea della relatività della bellezza si deve a Voltaire (1694-1778), il quale nella voce del suo Dizionario filosofico dedicato al bello e alla bellezza scrive:

Bello, Bellezza. Chiedete a un rospo cos’è la bellezza, il bello assoluto, il to kalòn. Vi risponderà che è la sua femmina, con i suoi due grossi occhi rotondi sporgenti dalla piccola testa, la gola larga e piatta, il ventre giallo, il dorso bruno. Interrogate un negro della Guinea: il bello è per lui una pelle nera, oleosa, gli occhi infossati, il naso schiacciato. Interrogate il diavolo: vi dirà che la bellezza è un paio di corna, quattro artigli e una coda. Consultate infine i filosofi: vi risponderanno con argomenti senza capo né coda; han bisogno di qualcosa conforme all’archetipo del bello in sé, al kalòn.

Assistevo un giorno a una tragedia, seduto accanto a un filosofo. «Quant’è bella!», diceva. «Cosa ci trovate di bello?» domandai. «Il fatto,» rispose, «che l’autore ha raggiunto il suo scopo». L’indomani egli prese una medicina che gli fece bene. «Essa ha raggiunto il suo scopo,» gli dissi, «ecco una bella medicina!» Capì che non si può dire che una medicina è bella e che per attribuire a qualcosa il carattere della bellezza bisogna che susciti in noi ammirazione e piacere. Convenne che quella tragedia gli aveva ispirato questi due sentimenti e che in ciò stava il kalòn, il bello.

Facemmo un viaggio in Inghilterra: vi si rappresentava la stessa tragedia, perfettamente tradotta, ma qua faceva sbadigliare gli spettatori. «Oh! Oh!» disse, «il kalòn non è lo stesso per gli inglesi e per i francesi». Concluse, dopo molte riflessioni, che il bello è assai relativo, così come quel che è decente in Giappone è indecente a Roma e quel che è di moda a Parigi non lo è a Pechino; e così si risparmiò la pena di comporre un lungo trattato sul bello (Voltaire, 1981, pp. 49-50).

Se è vero che il kalòn non è uguale per gli inglesi e i francesi, è anche vero che, talora, la bellezza non solo non salva il mondo, ma lo perde. Pensiamoci. Per una bella ragazza si tradisce, si fa a pugni, ci si lascia corrompere, si uccide addirittura. Per una magnifica opera d’arte, si ruba e si commettono altri atti illegali. Alcuni grandi artisti, come Van Gogh ed Edvard Munch, hanno pagato con la malattia la loro creatività artistica. La contemplazione di un’opera d’arte può indurre forme patologiche più o meno gravi, come la cosiddetta “sindrome di Stendhal”, una neuropatologia di carattere psicosomatico che provoca vertigini, confusione mentale, svenimenti, allucinazioni, palpitazioni e attacchi di panico in chi si trova di fronte a un’opera d’arte (Magherini, 1992). Per la bella vita si vende l’anima al diavolo, come Faust.

Soprattutto, la bellezza è spesso superficiale ed effimera e, nella società contemporanea, viene spesso utilizzata per vendere, sedurre, ingannare, conquistare più che nobilitare. Essa, inoltre, genera tutta una serie di distorsioni nella mente delle persone.

La ricerca psicologica, ad esempio, ha dimostrato che alle persone belle sono di solito associate caratteristiche positive, come la bontà, l’onestà, l’affidabilità, la socialità, che in realtà, di per sé, non hanno nulla a che fare con la bellezza e che possono generare impressioni false o distorte. Si parla al riguardo di “effetto alone”: un singolo tratto – la bellezza – influenza la percezione di altre caratteristiche della persona (Capuano, 2021). Questo effetto viene utilizzato dalla pubblicità e dalla propaganda per favorire processi di acquisto o di consenso politico

È noto come uomini, donne, bambini e animali di aspetto gradevole siano costantemente rappresentati nella pubblicità per promuovere questo o quel prodotto. Meno noto è il fatto che perfino le nostre scelte politiche avvengono, spesso, non tanto sulla base di idee, valori e programmi, quanto dell’aspetto fisico di chi chiede il nostro voto. Una conclusione amara, da cui traiamo la lezione che la bellezza è spesso seduzione e fascino, mirati non a elevare quanto a sedurre e confondere la mente. Questo perché gli elettori – asseriscono alcuni studi – tendono a percepire le persone di aspetto gradevole come più competenti, sincere, oneste, carismatiche. Come già riconosceva Napoleone, «se si vuole appassionare la folla, bisogna prima di tutto parlare ai suoi occhi» (cit. in Costa, Corazza, 2006, p. 157).

In base al contesto, chi è bello è ritenuto, inoltre, anche più gentile, felice, fortunato, intelligente, intraprendente della media. Questo stereotipo è valorizzato nel cinema dove l’eroe virtuoso, altruista e buono è quasi sempre bello, mentre il criminale è quasi sempre brutto. Del resto, questo errore della mente è presente già nell’antica Grecia dove il corpo era considerato specchio dell’anima, per cui l’uomo virtuoso era anche bello: tutto ciò è sintetizzato nella nota diade kalòs kaí agathòs, dalla quale scaturisce anche il sostantivo kalokagathía, che conduce a un’immediata identificazione di bello e buono. In sostanza, ciò che è bello non può non essere buono e ciò che è buono non può non essere bello.

Anche nella Bibbia, in Genesi, l’aggettivo ebraico tôb (pronunciato tôv), spesso tradotto con “buono” in frasi come “Dio vide che era cosa buona”, potrebbe essere tradotto anche con “bello” dal momento che il suo significato oscilla tra “buono” e “bello”, a testimonianza del fatto che per gli antichi ebrei, come per noi consumatori contemporanei, bontà e bellezza coincidono o quasi.

La bellezza ha ripercussioni distorcenti anche in contesti scolastici e lavorativi. La ricerca psicologica ha rilevato che chi è bello tende a ricevere più messaggi positivi, verbali e non verbali, da parte degli insegnanti, il che aumenta la sua autostima e favorisce maggiori chance di successo scolastico. Inoltre, la bellezza attira maggiori aspettative positive rispetto alla bruttezza, circostanza che può favorire una maggiore attenzione e considerazione da parte degli educatori con inevitabili effetti positivi sul futuro scolastico della persona bella (Costa, Corazza, 2006, pp. 117-127).

L’apparenza esteriore è spesso ritenuta indice di maggiori capacità professionali e di qualità particolari. La bellezza è inconsciamente associata a maggiore stima di sé, ambizione e forza d’animo per cui, in ambito lavorativo, i valutatori tendono a preferire, a parità di condizioni, le persone di aspetto gradevole a quelle di aspetto sgradevole. Come affermano gli psicologi Marco Costa e Leonardo Corazza, «la bellezza è una sorta di diploma o di capitale umano che il mercato del lavoro riconosce e ricompensa finanziariamente» (Costa, Corazza, 2006, p. 143). Questo perché la bellezza facilita le relazioni di lavoro e i rapporti con i colleghi, accelera avanzamenti e promozioni di carriera, favorisce successo e popolarità.

Molti studi hanno, poi, rivelato che, se imputate in un processo, a parità di situazione giudiziaria, le persone di bell’aspetto tendono a ricevere sanzioni più miti rispetto agli imputati di aspetto sgradevole. La stessa distorsione agisce nel caso delle testimonianze: i testimoni di bell’aspetto sono generalmente considerati più credibili di chi ha un aspetto mediocre o brutto. Gli avvocati giudicati avvenenti guadagnano di più e sembrano avere una influenza considerevole sulla decisione finale di giudici e giurati (Costa, Corazza, 2006, pp. 152-153). E tutto ciò a dispetto dell’idea che la giustizia debba essere imparziale.

Rimanendo in ambito giudiziario, corollario dell’idea secondo cui “La bellezza salverà il mondo” è la convinzione che la “bellezza” debba essere identificata con la “cultura” e che solo questa possa risparmiare al mondo le brutture della criminalità. L’ignoranza genera delinquenza, che è cosa brutta. Cultura e conoscenza, invece, generano bellezza. Si leggano, dunque, libri in quantità e si sarà salvati!

Ora, è vero, in generale, che ignoranza e criminalità vanno spesso a braccetto. Studi e statistiche criminologiche mostrano una chiara correlazione fra mancanza di istruzione e delinquenza. I delinquenti comuni presentano maggiori carenze scolastiche rispetto al resto della popolazione. Inoltre, nelle loro carriere scolastiche troviamo spesso problemi disciplinari, assenze da scuola, punteggi più bassi. L’evasione scolastica, infine, è particolarmente associata a forme di delinquenza comune (Capuano, 2016).

L’equazione ignoranza = criminalità è, dunque, fino a un certo punto, giustificata. Non del tutto, però.

Già il padre della criminologia italiana Cesare Lombroso, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, faceva notare che esistono vari tipi di reato che richiedono un’istruzione generale e specifica, specialmente tecnica, di non poco conto, tanto che il criminale che vuole eccellere in essi deve essere molto abile e competente (cit. in Mannheim, 1975, vol. 2, p. 716). Come riassume il criminologo Hermann Mannheim nel suo imponente Trattato di criminologia comparata:

Le complicate transazioni finanziarie, le falsificazioni ordinarie o di opere d’arte, lo spionaggio, e molte altre forme di reati del colletto bianco richiedono non solo una intelligenza superiore alla media, ma anche cognizioni specializzate superiori a quelle degli ordinari cittadini rispettosi della legge, o a quelle della media degli scassinatori, dei borsaiuoli, dei ladri di negozi o di simili gruppi a bassa abilità (Mannheim, 1975, vol. 2, p. 716).

Oggigiorno, l’esecuzione di reati finanziari presuppone una conoscenza del funzionamento dei mercati e delle borse che pochi, anche tra le persone considerate colte, posseggono. Stesso discorso si può fare per i crimini informatici e per le azioni degli hacker: in alcuni casi, si tratta di possedere capacità e competenze che solo una élite di individui normalmente possiede.

Insomma, se l’ignoranza sembra condurre al crimine, anche competenze, conoscenze e saperi – ciò che passa abitualmente per cultura – possono produrre lo stesso risultato. Come osserva ancora Mannheim, «delitti molto gravi sono stati commessi da persone molto istruite […] le cacce medievali alle streghe erano quasi sempre organizzate da studiosi» (Mannheim, 1975, vol. 2, p. 717). Ciò non significa che l’istruzione debba essere criminalizzata, ma semplicemente che l’ignoranza non è l’unica variabile associata alla criminalità.

È dubbio, poi, che i libri producano sempre effetti positivi su chi li legge. Ne La città di Dio (426), Agostino racconta la vicenda di Teombroto, il quale, in seguito alla lettura di un libro di Platone sull’immortalità dell’anima, si gettò da un muro, passando così a quella che riteneva miglior vita (Agostino, 2015, p. 112). I Dolori del Giovane Werther (1774) di Goethe incoraggiò un’ondata di suicidi nei lettori più sensibili dell’epoca, tanto che si parla ancora oggi di “effetto Werther” per designare l’effetto imitativo prodotto dalla pubblicazione di notizie riguardanti suicidi nei mezzi di comunicazione di massa. Gli omicidi di Jesse Harding Pomeroy, assassino seriale del XIX secolo, furono imputati alle letture dei romanzi d’azione a buon mercato che circolavano all’epoca.  Altri serial killer si dilettavano della lettura della Bibbia come David Berkowitz, John George High, Earle Leonard Nelson (Schechter, 2005, pp. 323-326). Mark David Chapman, l’uomo che nel 1980 uccise John Lennon, aveva con sé una copia del Giovane Holden di Salinger. Quando la polizia arrivò sul luogo del delitto, lo trovò che stava leggendo alcune pagine del romanzo. Infine, è noto come tante guerre religiose siano state combattute nel nome di alcuni libri (la Bibbia, il Corano ecc.).

Se è dubbio, quindi, che la bellezza, intesa come bellezza fisica, arte, letteratura, cultura (e potremmo aggiungere anche musica, teatro, cinema), abbia sempre effetti salvifici, perché il luogo comune – ormai uno slogan – “la bellezza salverà il mondo” ha tanta presa presso intellettuali, amministratori, politici, scienziati e persone comuni?

È possibile indicare almeno tre ragioni.

La prima ha a che vedere con la connotazione estremamente positiva che il concetto di “bellezza” ha assunto nella società contemporanea. La bellezza è la meta a cui tutti aspirano (basti pensare al boom della chirurgia estetica e dei ritocchi digitali), una vera e propria ossessione estetica che coinvolge ognuno di noi, minacciando talvolta la nostra autostima, ma imponendosi sempre come un dovere sociale a cui è quasi impossibile sottrarsi. La bellezza è il destino e la dannazione della contemporaneità.

La seconda riguarda il tema della salvezza. Nella nostra società secolarizzata, ci piace l’idea che a salvarci sia una qualità così immanente come la bellezza. Non si tratta più, come in Agostino, della bellezza divina, ma di una bellezza terrestre, materiale, capace, tuttavia, di innalzare i nostri animi a livelli di sublimità quasi divini. Una bellezza che non dobbiamo immaginare perché persa negli empirei delle religioni, ma che possiamo “toccare” con tutti i nostri sensi. Gli umani possono così ringraziare un “salvatore sensibile” a cui possono attingere quotidianamente senza l’intermediazione di preghiere o altri appelli alla divinità.

La terza e ultima ragione è di ordine cognitivo. La nostra mente predilige spiegazioni semplici e lineari degli eventi che accadono intorno a essa. In altre parole, ci piace l’idea di essere “salvati” da un unico rimedio che guarisca miracolosamente tutti i nostri mali, un’unica sostanza che metta a posto il mondo. In questo senso, la bellezza diventa, nella nostra epoca, il surrogato cognitivo della divinità, ormai scalzata dal trono dei medicamenti salvifici. Le nostre aspettative vengono così riversate su un’entità più empiricamente appagante di tante altre entità eteree, pur conservando una sua inebriante astrattezza concettuale.

Naturalmente, è possibile indicare una quarta ragione: lo slogan “la bellezza salverà il mondo” ha presa presso il pubblico semplicemente perché tutti lo ripetono in continuazione. E la ripetizione incessante di un luogo comune – lo sanno bene i persuasori di professione – è un’ottima tecnica per far credere che esso sia vero. La massima di Dostoevskij, dunque, è condannata a subire la sorte di tutti i luoghi comuni, ovvero a essere percepita come vera per eccesso di reiterazioni.

Riferimenti

Agostino, 405-410, Discorso 241.

Agostino, 2015, La città di Dio, Bompiani, Milano.

Capuano, R. G., 2016, 101 falsi miti sulla criminalità, Stampa Alternativa, Viterbo.

Capuano, R. G., 2021, Aloni, stregoni e superstizioni. Cinque studi sulla irrazionalità umana, PM Edizioni, Varazze (SV).

Costa, M., Corazza, L., 2006, Psicologia della bellezza, Giunti, Firenze.

Dostoevskij, F., 1868, L’idiota, in Idem, 1988, Tutti i romanzi, Sansoni, Firenze, vol. 1.

Hume, D. 1760, Of the Standard of Taste.

Magherini, G., 1992, La sindrome di Stendhal, Feltrinelli, Milano.

Mannheim H., 1975, Trattato di criminologia comparata, Einaudi, Torino, vol. 2.

Pulvirenti, E., 2005, “Sette luoghi comuni sull’arte”, Didatticarte, 2 aprile.

Schechter, H., 2005, Furia omicida, Sonzogno, Milano.

Voltaire, 1981, “Bello, bellezza” in Dizionario filosofico, Garzanti, Milano.

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Babbo Natale, la Befana e il consumo

Una notevole, quanto inavvertita, differenza separa le due figure tradizionali delle festività di fine dicembre-inizio gennaio di ogni anno: Babbo Natale e la Befana.

Mentre il primo, lontano discendente di san Nicola, pur attirando incrostazioni e contaminazioni culturali disparate, anche pagane, e pur essendosi perfettamente integrato nel pantheon consumistico natalizio, di cui anzi incarna uno dei più beneamati rappresentanti, è ancora visto di buon occhio dalla Chiesa cattolica, proprio in virtù delle “sante” origini di cui ho detto, la Befana, erede di tradizioni funzionali alle culture contadine di un tempo, e debitrice di lontani culti pagani, demoniaci e stregoneschi, non è mai riuscita a scrollarsi di dosso le fetide scaturigini legate a quei remoti riti di fertilità, incentrati sul culto della dea Diana e di tutta la schiera di esseri femminili che, nel tempo, le si sono affiancate.

Queste presenze sono mutate progressivamente fino ad assumere fattezze decisamente malefiche dai nomi cangianti: Erodiade, Perchta, Holda, Satia, Abendia. Tutte streghe, guide e regine di schiere demoniache, impegnate in vorticosi sabba diabolici.

L’origine “sotterranea” della Befana è evidente anche dal fatto che, tradizionalmente, i suoi regali sono recapitati attraverso il camino: al tempo stesso, condotto astrale che mette in comunicazione casa e cielo, ed elemento associato al culto dei morti, in quanto luogo deputato, secondo la tradizione, alla sepoltura dei morti, in particolar modo dei bambini morti prematuramente.

La befana risente, però, anche di una componente fortemente sociale: l’uso dei doni portati di notte da un essere soprannaturale era un fenomeno più che altro borghese in quanto ai bambini di appartenenza sociale bassa e medio-bassa nessuno portava niente. Traduzione in chiave mitologico-folkloristica di diseguaglianze sociali radicate e insopprimibili.

Ne consegue che la Befana è irrimediabilmente “altra”, a differenza di Babbo Natale che qualcosa di cattolico, di familiare, di “nostro” possiede.

Come ha superato questa differenza la nostra società? Semplicemente omologando nella stessa dimensione consumistica entrambe le figure. Il tanto vituperato consumismo, infatti, se da un lato scortica il rivestimento culturale originario di ogni personaggio sedotto dai suoi effluvi, dall’altro, fornisce una nuova identità, basata su domanda e offerta, produzione e consumo, ma soprattutto di oblio delle origini, condizione primeva per la sua affermazione dominante.

È per questo che non abbiamo paura né dell’obeso e barbuto figuro che risponde al nome di Babbo Natale, né della vecchia, bitorzoluta e sgraziata figura che tutti chiamano Befana. È il consumo che li fa belli, che li fa apparire gradevoli, se non desiderabili. È il profumo delle merci che trasduce il loro cattivo odore in fragranza inebriante.

Fonte:

Corvino, C., Petoia, E., 2004, Storia e leggende di Babbo Natale e della Befana, Newton Compton Editori, Roma.

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Maria Natalia Magdolna e il rosario

La pagina Facebook “Preghiere per le anime del purgatorio” contiene preghiere e testimonianze di santi sul purgatorio. Tra le tante è possibile leggere la seguente, tratta dagli scritti della suora ungherese Maria Natalia Magdolna, al secolo Kovacsics Maria Natalia (1901-1992), alla quale è stata attribuita la facoltà di ricevere messaggi profetici da Gesù e dalla Madonna.

Una notte GESÙ chiese a suor Maria Natalia Magdolna di pregare per le anime del purgatorio.  Erano le 4 del mattino e voleva finire di scrivere il suo diario, quando Gesù le disse:

– Figlia mia, pur rispettando la tua stanchezza, voglio chiederti di non addormentarti finché non avrai annotato lo stato di sofferenza delle anime del PURGATORIO.

 Voglio che i miei fratelli sacerdoti si uniscano a una crociata di preghiera per le anime che soffrono in PURGATORIO.

Ora voglio alleviare coloro che durante la loro vita hanno chiesto spesso a me e mia madre in preghiera, che abbiamo pietà di loro al momento della loro morte, e quando erano in un luogo di sofferenza.

– GESÙ poi mi ha portato in un luogo così grande che non potevo vedere la fine, sebbene il luogo fosse buio, le anime lì sembravano essere calme.  C’erano un certo numero di anime che indossavano abiti neri ed erano vicine l’una all’altra, sembravano tutte immobili senza parole, molto tristi.  Mi si è quasi spezzato il cuore vedendoli così.  Sapevo che queste anime non ricevevano alcun aiuto da nessuno sulla terra, né preghiere, né sacrifici.  Sapevano che il momento del suo rilascio, non era ancora arrivato, ma confidavano che non ci sarebbe voluto molto.

Dopodiché, GESÙ mi portò in un altro luogo simile, lì le anime tremavano nelle loro vesti nere, ma quando mi videro entrare con GESÙ, cominciarono tutti a tremare, avevo in mano il mio ROSARIO per pregare per loro.  Quando videro il ROSARIO si misero tutti a gridare;

– Prega per la mia cara sorella, prega per me!

– E hanno cercato di superare la loro voce gridando più forte, chiedendo le mie preghiere come una nuvola di api.  Anche se urlavano tutti allo stesso tempo, potevo distinguere la voce di ciascuno.  Ho riconosciuto molto tra loro persone che conoscevo quando erano sulla terra.  Ho visto alcune suore di altri ordini e anche del mio.  “Sono rimasta scioccata” quando una Madre Superiora si è rivolta a me e mi ha chiesto umilmente di pregare per lei.

Dopo questo, una mia conoscenza religiosa, con le mani giunte e toccando il mio ROSARIO, mi pregò:

– per me, per me!

– Mentre uno strano sudore, non so se era sul palmo o sul corpo mi scorreva addosso.

Più tardi, GESÙ mi portò in un terzo luogo dove c’erano innumerevoli monache in piedi e immobili, mentre un sudore pesante le scorreva addosso.  Si sono rivolti a me e mi hanno pregato di pregare il ROSARIO per loro. In quel luogo c’era luce, pensavo: “Perché sarà che mi chiederanno un ROSARIO”.  Allora GESÙ mi mostrò un rosario in cui, al posto dei grani del ROSARIO, c’erano dei fiori e per ogni fiore che vedevo brillava una goccia del sangue di GESÙ.

Quando recitiamo il ROSARIO, le gocce del sangue di GESÙ cadono sulla persona per la quale offriamo.  Le anime del purgatorio implorano continuamente il sangue salvifico di GESÙ.

I messaggi di mistici e profeti contemporanei contengono spesso riferimenti alle capacità pragmatiche del rosario, al quale sono attribuire numerose facoltà, superiori a quelle di tante altre preghiere.

Perché il rosario è considerato una preghiera tanto potente? Perché il mondo cattolico assegna a esso facoltà “miracolose” di ogni tipo? E come si è arrivati storicamente a ritenere tutto ciò possibile?

La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario è il libro in cui parlo di tutto questo e tanto altro ancora. Perché il rosario non è una banale preghiera ripetitiva, ma nasconde segreti inimmaginabili, che ne fanno una potente “arma” psicologica e sociale.

Se ti va di scoprirne i segreti, leggi il mio La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario.

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Concept creep

person in black pants and black shoes sitting on brown wooden chair

È stato lo psicologo australiano Nick Haslam, in “Concept Creep: Psychology’s Expanding Concepts of Harm and Pathology” (Psychological Inquiry, 27: 1–17, 2016) a notare come diversi concetti della psicologia abbiano subito un importante mutamento semantico negli ultimi decenni. Tale mutamento ha assunto la forma di una vera e propria tendenza e riguarda soprattutto concetti che fanno riferimento agli aspetti negativi dell’esperienza umana e che, oggi, coprono un’area di significato molto più ampia che in passato.

Questa espansione, che Haslam definisce con l’efficace e poco accademica espressione concept creep, si è orientata in due direzioni, “orizzontale” o qualitativa e “verticale” o quantitativa: nel primo caso, il concetto racchiude fenomeni nuovi e perfino concettualmente slegati dal fenomeno originario; nel secondo, il concetto comprende casi minori quantitativamente meno estremi. Esempi di questa estensione concettuale sono, per Haslam, termini come “dipendenza”, “trauma”, “abuso”, “pregiudizio” e “sicurezza”.

Consideriamo il termine “abuso”. Se inizialmente esso veniva impiegato per indicare fenomeni di abuso fisico e sessuale, il concetto è stato successivamente e “orizzontalmente” esteso a significare un nuovo fenomeno: l’abuso emotivo o psicologico.  In seguito, ha incorporato “verticalmente” anche il concetto di “trascuratezza” per cui un comportamento ritenuto un tempo non patologico, rientra oggi a pieno diritto nella fenomenologia dell’abuso.

La parola “trauma” indicava in origine un fenomeno esclusivamente fisico. Oggi, come è noto, esso sembra riferirsi soprattutto a fenomeni psicologici o addirittura psichiatrici: basti pensare al disturbo post-traumatico da stress.

“Dipendenza” non indica più esclusivamente una condizione correlata all’uso di droghe o alcol, ma estende il suo campo semantico fino a comprendere la dipendenza da internet, dal gioco d’azzardo, dalla pornografia e da altri comportamenti.

“Sicurezza”, che originariamente si riferiva quasi esclusivamente alla sicurezza fisica, dalla fine degli anni Ottanta ha cominciato a espandersi nel regno psicologico, tanto che oggi è diffusa l’espressione “sicurezza emotiva”.

Per Haslam, il fenomeno del concept creep riflette innanzitutto una sensibilità crescente nei confronti

del dolore e di ciò che causa danno. Il rischio, tuttavia, è che tale estensione semantica, sebbene talvolta ben motivata, patologizzi esperienze quotidiane che tutti noi viviamo e incoraggi atteggiamenti di vittimismo e fatalismo impotente.

In questo senso, un altro pericolo è quello di conferire uno status quasi ontologico a fenomeni psichici e sociali, un tempo ritenuti banali o non problematici, facendoli percepire come patologie “solide” e inquietanti contro cui è necessario un rimedio “forte” e “potente”.

Non a caso Haslam utilizza il termine creep per descrivere il fenomeno da lui studiato; un termine che fa pensare a una pianta che lentamente si arrampica, si espande e mette radici, ma anche a qualcosa di raccapricciante e sconcertante.

È indubbio che la nostra società tende a una progressiva patologizzazione e medicalizzazione della vita. L’augurio è che ciò non si risolva, in maniera raccapricciante (creepy), nella creazione di una società di “malati”, impossibilitati a guarire a causa degli esigenti modelli normativi imposti dalla contemporaneità.

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L’“effetto rimbalzo” e la “licenza morale”

La psicologia e la sociologia hanno individuato da tempo un cospicuo numero di “leggi” che governano il comportamento umano o che, almeno, lo condizionano enormemente.

Due di queste sono l’“effetto rimbalzo” e la “licenza morale”.

Per “effetto rimbalzo” si intende il fenomeno per cui quando risparmiamo un po’ di denaro grazie a una condotta virtuosa, ad esempio tramite un comportamento favorevole all’ambiente, i soldi risparmiati vengono spesi, talvolta, in consumi che vanno in direzione contraria alla condotta virtuosa, ad esempio danneggiando l’ambiente, spesso inconsapevolmente.

Così, è dato osservare che persone che risparmiano denaro usando il meno possibile l’automobile, perché considerata inquinante, utilizzano il denaro risparmiato per concedersi una vacanza in più, durante la quale si abbandoneranno a comportamenti dannosi per l’ambiente, per esempio producendo più rifiuti. In altre parole, compensiamo, senza volerlo, una condotta con il suo opposto.

Un meccanismo simile si ha con la cosiddetta “licenza morale”. In base a essa, quando facciamo qualcosa di “buono”, come ricompensa concediamo a noi stessi il permesso di fare qualcosa di “cattivo”. Questa tendenza è evidente nel caso di chi si impone una dieta alimentare. Un progresso ottenuto tramite un sacrificio da noi giudicato “costoso” – mangiare quella verdura che proprio non ci va giù – viene compensato in seguito con una barretta di cioccolato fondente, che sentiamo di “meritare” per i nostri sforzi.

Ugualmente, chi fa una donazione, soprattutto se cospicua, a favore di un’associazione di volontariato o della ricerca medica, si sente, talvolta, “autorizzato” a commettere piccole infrazioni dalle quali tenderà ad autoassolversi perché “sono una brava persona”. Un esempio, è fornito da uno studio sul comportamento negli acquisti secondo il quale «più i consumatori acquistano lampadine a risparmio energetico, utilizzano sacchetti ecologici o riutilizzano le proprie borse, più è probabile che la loro spesa settimanale contenga carne e acqua in bottiglia» (Lomborg, B., 2024, Falso allarme. Perché il catastrofismo climatico ci rende più poveri e non aiuta il pianeta, Fazi Editore, Roma, p. 136).

Ancora, chi lascia che il senzatetto al semaforo gli lavi il parabrezza, potrà reagire con una strombazzata più aggressiva se l’auto davanti a sé non riparte immediatamente al verde.

È come se non riuscissimo a fare a meno di darla vinta solo a una parte di noi stessi – anche se è la parte “buona” – e avessimo bisogno di bilanciare le nostre scelte, concedendo qualcosa anche alla parte “cattiva”.

Insomma, usiamo “rimbalzi” e “licenze” per ribadire a noi e agli altri che, in fondo, siamo solo umani e che sentirci esclusivamente “santi” o esclusivamente “malvagi” non ci piace affatto.

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Nuovo incontro sulla pareidolia

Per chi si trovasse dalle parti di Cagliari il 19 dicembre, spettacolare incontro sulla pareidolia tra bande che suonano e poeti fiammeggianti!
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(Altre) linguistiche ferroviarie

red train on tracks with green grass beside under bright sky

In un post precedente, riflettevo su alcune formule linguistiche ferroviarie paradossali, stranianti e cacofoniche a cui chi viaggia è spesso esposto, ma su cui normalmente non ricade l’attenzione del pendolare, resa ottusa dalle continue ripetizioni delle formule stesse.

Al riguardo, propongo altri due esempi.

Il primo: spesso è dato sentire annunci come il seguente: “Il treno regionale Y partirà dal binario 9 invece che dal binario 14”. Niente di strano, dirà qualcuno, se non fosse per il fatto che il binario 14, binario formalmente assegnato al treno Y, è un binario da cui il treno Y non è MAI partito, né mai partirà, optando, ogni giorno, per un binario diverso, che non coincide MAI con il 14. Di fronte a fatti come il precedente, il pendolare accorto si domanda che senso abbia assegnare un binario a un treno che non parte mai da quel binario, ma SEMPRE da altri. È come dire che Z abita in Via delle Magnolie, per poi scoprire che in Via delle Magnolie, sua residenza anagrafica, non abita mai e, forse, non c’è mai stato. Una conseguenza di ciò è che il pendolare è costretto, ogni giorno, a scovare il binario di partenza del suo treno, mutevole come l’umore di una persona affetta da grave disturbo bipolare.

Il secondo: ogni giorno, puntualmente, durante il tragitto, una voce preregistrata invita i viaggiatori ferroviari ad abbassare la suoneria dello smartphone per evitare di recare disturbo ai propri compagni di carrozza. Tutto giusto, se non fosse per il fatto che il pendolare subisce, durante il viaggio, decine di annunci ad alta voce da parte delle Ferrovie dello Stato – annunci di servizio – che costituiscono una fonte non trascurabile di inquinamento acustico e che recano grande disturbo ai viaggiatori, a volte perfino superiore a quello prodotto dagli smartphone. Un paradosso acustico a cui non si fa attenzione perché sovrastati da mille voci, rumori e annunci a cui si è costretti a fare l’abitudine, volenti o nolenti.

Le linguistiche ferroviarie meriterebbero uno studio approfondito da parte di semiologi e sociologi della comunicazione. Chissà che un giorno qualcuno di buona volontà non provveda!

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