Nostalgia canaglia, anzi… criminale

Può la nostalgia essere una delle cause della criminalità? Può uno stato d’animo di acuto desiderio e rimpianto malinconico per quanto è trascorso o lontano essere alla base di un incendio doloso o di un gesto omicida? Secondo il criminologo austriaco Hans Gross (1847-1915), la risposta è sì.

Lo apprendiamo dal suo Psicologia criminale. Un manuale per giudici, professionisti e studiosi (1918), uno dei testi fondatori delle scienze forensi, in cui un’intera, per quanto breve, sezione è dedicata alla nostalgia come causa scatenante di azioni criminali.

Per Gross, la nostalgia, che alcuni teorici dei secoli precedenti definivano addirittura una malattia, può essere contrastata nella sua fase più acuta e struggente solo facendo esperienza di forti stimoli sensoriali. Quando tali stimoli non sono riconducibili a condotte lecite, possono essere tratti anche da azioni illecite, anzi criminali, come appiccare un incendio o uccidere un qualunque essere umano. Leggiamo le parole di Gross:

La questione della nostalgia è di fondamentale importanza e non deve essere sottovalutata. È stata molto studiata e si è giunti alla conclusione che soprattutto i bambini (in particolare durante il periodo della pubertà), e le persone idiote e deboli di mente, soffrono molto di nostalgia e cercano di combattere il sentimento opprimente di sconforto che da quella deriva con potenti stimoli sensoriali. Per questo motivo, sono facilmente spinti a commettere reati, in particolare ad appiccare incendi. Si sostiene che le persone prive di istruzione, che vivono in regioni solitarie e molto isolate, in cima alle montagne, nelle grandi brughiere o nelle zone costiere, sono particolarmente soggette alla nostalgia. Ciò appare vero e si spiega con il fatto che le persone istruite trovano facilmente distrazione dai loro pensieri tristi e, in una certa misura, portano con sé parte della cultura di provenienza mescolandola alla cultura più o meno internazionale da essi vissuta. Allo stesso modo, è plausibile che gli abitanti di una regione non particolarmente individualizzata non notino così facilmente le differenze. Soprattutto chi si trasferisce da una città all’altra si ritrova facilmente, ma la montagna e la pianura posseggono valori così distanti che il senso di estraneità è opprimente. Dunque, se il nostalgico ne è capace, cerca di annientare la nostalgia dedicandosi a piaceri più frastornanti ed elettrizzanti; se non ne è capace, incendia una casa o, in caso di necessità, uccide qualcuno: in breve, ciò di cui ha bisogno è un sollievo esplosivo. Tali eventi sono così numerosi che dovrebbero ricevere opportuna attenzione. Dovremmo prendere in considerazione il fattore nostalgia ogni volta che non è dato trovare un movente più appropriato per la violenza e il sospettato è una persona che esibisce le caratteristiche sopra menzionate. D’altra parte, se si scopre che il sospettato è davvero affetto da nostalgia, da una nostalgia struggente per i consanguinei, si dispone di un indizio della sua criminalità. Di norma, individui così pietosi e infelici sono così poco propensi a negare il reato da essi commesso che la loro sofferenza non aumenta percettibilmente a causa dell’arresto. Oltre a ciò, il procedimento legale a cui sono sottoposti è uno stimolo non indesiderato, nuovo e potente per essi.

Quando questi nostalgici confessano il misfatto da essi compiuto, non ne confessano mai, per quanto ne so, il movente. A quanto pare, non li conoscono e quindi non riescono a spiegare il loro gesto. Di norma, li si sente dire: «Non so perché l’ho fatto. Sono stato costretto a farlo». Quando tutto ciò comincia a essere anormale, deve deciderlo il medico, che deve sempre essere consultato quando la nostalgia è la causa di un crimine. Ovviamente, non è impossibile che un criminale, per suscitare pietà, spieghi il suo crimine come conseguenza di una nostalgia insormontabile, ma ciò non è mai vero perché, come abbiamo dimostrato, chi agisce per nostalgia non ne è consapevole e non è in grado di riferirlo.

Se tutto ciò è vero della nostalgia, è lecito supporre che uguali reazioni violente siano possibili in risposta ad altri stati d’animo demoralizzanti. Mi riferisco in particolare alla noia.

La cronaca ci restituisce continuamente episodi in cui azioni aggressive e brutali vengono compiute da individui tediati, come nel caso dell’omicidio recente di Sharon Verzeni, uccisa appunto “per noia” da Moussa Sangare, un trentunenne alla ricerca di emozioni forti.

Per quanto possa sembrare paradossale, anche stati d’animo “accidiosi” come la noia e la nostalgia generano azioni violente e brutali. Forse Gross esagerava. Forse la nostalgia non è così pericolosa come pensava. O forse l’essere umano è da temere sempre. Anche quando sembra malinconico e depresso.

Riferimento

Hans Gross, 1918, Criminal Psychology. A Manual for Judges, Practitioners, and Students, Little, Brown, and Company, Boston. Section 17. (4) “Nostalgia”.

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Pareidolia:
Illusione percettiva che porta a interpretare uno stimolo di per sé vago e confuso, sia esso visivo o sonoro, in maniera chiara e riconoscibile

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Il lavoro nobilita l’uomo

… e lo rende libero (Arbeit macht frei), come motteggiavano grottescamente gli ingressi dei lager nazisti durante la Seconda guerra mondiale. C’è da sospettare, però, che dietro tali formule ripetute fino alla nausea – soprattutto la prima, esente da ogni connotazione nazista – si nasconda qualcosa di ineffabile, che si ha pudore a rivelare apertamente. È curioso, infatti, che un’attività contrassegnata sin dalle sue origini come fatica sgradevole, sforzo abietto, vile necessità sia etichettata come nobilitante. Non sarà che la nobiltà di cui si vanta il noto adagio serva solo una funzione di ipocrita copertura o, meglio, una funzione compensativa, finalizzata a rendere accettabile un qualcosa che accettabile non è, a barattare una occupazione abbrutente, umiliante e deludente con un misero riconoscimento formulaico, che non acquista maggiore verità per il fatto di essere ripetuto all’infinito?

“Il lavoro nobilita l’uomo” – frase la cui paternità molti attribuiscono a Charles Darwin – avrebbe, dunque, per l’essere umano (non solo per gli uomini) lo stesso valore consolatorio di detti come “Sposa bagnata, sposa fortunata” o di celebri profezie bibliche come “Gli ultimi saranno i primi” (Matteo 20, 16). Il conforto che esso dona è un misero palliativo alle sofferenze che da sempre il lavoro procura a uomini e donne. Si tratta di una retorica alleviatrice veicolata dalla ridondante reiterazione di parole che trasformano un significato nel suo contrario, non dissimilmente da quanto accade in 1984 di George Orwell (1903-1950), dove “la pace è guerra, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”. È così che il lavoro diventa nobiltà, che il dolore si converte masochisticamente in valore.

La vera natura del lavoro, in realtà, è sancita già in Genesi 3, 17 dove leggiamo: «Ad Adamo disse: “Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie e hai mangiato del frutto dall’albero circa il quale io ti avevo ordinato di non mangiarne, il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita”». E 2 Tessalonicesi 3, 10 ne raccomanda il valore, minacciando: «Se uno non vuole lavorare neppure mangi».

Leone XIII (1810-1903) nella sua Rerum Novarum (1891) si dimostra perfettamente allineato con la lettera della Bibbia quando afferma la necessità del lavoro faticoso:

Quanto al lavoro, l’uomo nello stato medesimo d’innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell’animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell’oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen 3,17). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l’uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell’uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v’è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali.

Le convinzioni di Leone XIII non circolano solo tra i cattolici, se è vero che anche Lenin (1870-1924) amava ripetere: «Chi non lavora non mangia: ecco la regola essenziale, iniziale, principale che possono e debbono applicare i soviet quando saranno al potere» (cit. in Pertosa, Santoni, 2017, pp. 28-29), monito che qualche decennio dopo fu raccolto da Adriano Celentano nella canzone “Chi non lavora non fa l’amore”.

Ciò che emerge dal racconto biblico e dalle varie epigenesi, colte o pop, che a esso sono seguite è che il lavoro è affanno, sofferenza, disagio, per quanto necessario alla sopravvivenza della specie. Ma tale natura penosa è continuamente velata da un’ideologia del lavoro come dovere e come riscatto, ormai interiorizzata da millenni, che ha reso sopportabili secoli di miseria e di fatica. Anzi, come osserva Philippe Godard, «oggi il lavoro è a tal punto interiorizzato che metterlo in discussione equivale a mettere in discussione la stessa umanità dell’uomo» (Godard, 2011, p. 53). Così come è saldamente interiorizzata l’idea del lavoro come nobile dovere. Ma la verità è che il concetto di dovere associato al lavoro, nota il grande filosofo inglese Bertrand Russell (1872-1970), è «un mezzo escogitato dagli uomini al potere per indurre altri uomini a vivere per l’interesse dei loro padroni anziché per il proprio. Naturalmente gli uomini al potere riescono a nascondere anche a se stessi questo fatto, convincendosi che i loro interessi coincidono con gli interessi dell’umanità in senso lato» (Lafargue, Russell, 1992, p. 106).

L’etica del lavoro, continua Russell, è l’etica degli schiavi «e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi» (Lafargue, Russell, 1992, p. 105), anche se, aggiunge Paul Lafargue (1842-1911), il genero di Marx, «i preti, gli economisti, i moralisti hanno proclamato il lavoro sacrosanto. Da uomini ciechi e limitati quali sono, hanno voluto essere più saggi del loro stesso Dio; uomini fiacchi e spregevoli, hanno voluto riabilitare ciò che il loro Dio aveva maledetto» (Lafargue, Russell, 1992, p. 57).

Il filosofo Giuseppe Rensi (1871-1941) è probabilmente tra i pochi che hanno scoperchiato la vera natura del lavoro. Rensi scorge una vera e propria relazione tra “dignificazione” del lavoro e natura dello stesso. Quanto più il lavoro è ritenuto infimo, detestabile, miserevole, tanto più aumenta la necessità di rappresentarlo come somma virtù.

Non ci devono ingannare le frasi d’apoteosi della funzione del lavoro che si ripetono sempre più frequenti e sonore negli ambienti o sui giornali operai. Se guardiamo, oltre queste mere frasi, alla realtà, vediamo chiaramente come al crescere dell’importanza economica, della considerazione sociale, dell’ascendente politico del lavoro, vada, parallelo (o meglio, sia il necessario precedente) il fastidio profondo, l’insofferenza, il senso d’insopportabilità, l’odio del lavoro stesso, in quelle classi appunto che, vivendo di questo, si sforzano di sospingere sempre più in alto, in ogni campo, la valutazione di esso. La crescente valutazione, autorità, dignificazione del lavoro, non è che effetto della ripugnanza e dell’odio, sempre più chiari e meno compressi, che esso ispira, ossia dell’assoluta svalutazione morale in cui esso è caduto presso i lavoratori, del suo apparire incoercibilmente a questi come un fatto puramente materiale e bruto, spoglio di ogni valore etico, da cui preme, quanto più si può, sottrarsi […]. Le classi lavoratrici odiano il lavoro e vogliono che sia sempre più valutato appunto perché lo odiano. L’odio pel lavoro; questo è il propulsore reale dell’esigenza che sotto tutti gli aspetti esso acquisti un sempre maggior apprezzamento (Rensi, 2012, pp. 41-42).

E ancora:

Tutti gli uomini odiano il lavoro. E necessariamente e con ragione: perché – e questo è il nocciolo del tragico viluppo in cui l’umanità si dibatte invano circa questa questione – il lavoro è meritamente odioso. Non è una cosa nobile, ma una necessità inferiore della vita della specie e dell’esistenza dei più, ripugnante essenzialmente alla più alta natura dell’uomo; per cui si può affermare che la misura della nobiltà di tempra d’uno spirito umano è data dal modo con cui egli considera il lavoro: tanto più è nobile, quanto più lo abborre, tanto più è volgare e bassa quanto più si lascia, contro il proprio vero, diretto ed immediato istinto, persuadere dai teoremi d’una morale convenzionale ad idealizzarlo ed estollerlo (Rensi, 2012, pp. 43-44).

Ed ecco la “legge suprema” di Rensi sul lavoro:

Quanto più il lavoro è sentito come cosa spiritualmente nulla o avversa e ripugnante, tanto più lo si dignifica e valorizza, e per converso, tanto più lo si svaluta, quanto più è avvertito (come nel caso del lavoro intellettuale) essere cosa atta a colmare l’anima, a dar un senso di pienezza alla nostra vita psichica, una cosa, insomma, rivestita di profondo significato spirituale (Rensi, 2012, p. 52).

Solo il gioco e la contemplazione rendono gli esseri umani degni di sé, essendo attività svolte unicamente per il piacere di svolgerle.

Chi è costretto a  destinare il meglio della sua giornata, cioè del suo tempo, ossia della sua vita (e siano pure anche le otto o le sette o 1e sei ore, e lavori egli come salariato o padrone o membro del proletariato dittatore che percepisca e divida l’intero provento del lavoro) ad un lavoro che gli pesa, che forse odia, o che solo lo annoia, per cui non ha interesse diretto, ma solo l’interesse indiretto del guadagno che da esso ricaverà, lavoro che quindi non farebbe anche senza essere pagato e per voglia spontanea, che non è un’attività che lo appaghi pel solo gusto di esercitarla – costui, si può forse dire che sia trattato come fine? No; manifestamente nell’atto del suo lavoro egli è semplice mezzo; la sua vita, il suo io, in quanto presi nel lavoro, non appartengono più a lui, perché egli non ne può fare ciò che vuole; essi sono mezzi, sia pure mezzi per un risultato (ulteriore ed esterno alla sua attuale attività-lavoro) ch’egli stesso percepirà e godrà; sia pure, cioè, mezzi della sua stessa vita e suo stesso io, della sua vita e del suo io d’un altro momento. O, come anche si può dire, il suo spirito, intanto che egli lavora, è costretto a servir di mezzo a suoi elementari bisogni organici come quello di vivere; per quanto i bisogni siano suoi egli è sempre soltanto un mezzo (Rensi, 2012, pp. 68-69).

Il lavoro, dunque, è dichiarato nobile per coprire i suoi aspetti odiosi e necessari. La retorica della nobiltà serve a conferire un senso giustificatorio e assolutorio a un complesso di attività che uomini e donne hanno svolto da sempre per pura necessità. Tanto è vero che pochi tra noi farebbero il loro lavoro se non fossero pagati. Ma c’è un altro aspetto per cui il lavoro è ritenuto dignitoso dalla società. Ne parla Friedrich Nietzsche (1844-1900) in uno dei suoi aforismi meno noti:

Gli apologeti del lavoro. Nell’esaltazione del «lavoro», negli instancabili discorsi sulla «benedizione del lavoro» vedo la stessa riposta intenzione che si nasconde nella lode delle azioni impersonali di comune utilità: la paura, cioè, di ogni realtà individuale. In fondo, alla vista del lavoro – e con ciò si intende sempre quella faticosa operosità che dura dal mattino alla sera – si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare; esso si pone sempre sott’occhio un piccolo obiettivo e procura lievi e regolari appagamenti. Così una società in cui di continuo si lavora duramente, avrà maggiore sicurezza: e si adora oggi la sicurezza come la divinità somma (Nietzsche, 1981, p. 122).

Il lavoro serve ad assegnare e mantenere al loro posto le persone in modo che esse non dedichino le proprie energie e il proprio tempo ad attività potenzialmente pericolose per la società stessa. Predicando la dignità del lavoro, al contempo ponendo ostacoli, dati i limiti dei corpi e delle menti umane, alla pianificazione e realizzazione di attività non conformi ai principi su cui si sorregge, la società “normalizza” i suoi membri, garantendosi ordine e sicurezza. Uomini e donne, sfiniti da ore e ore di lavoro brutalmente privo di significato, possono solo rivolgersi ad attività di consumo e tempo libero per recuperare un minimo di energia, che, però, servirà a riprendere la successione infinita di alternanza sforzo-riposo fino alle soglie della pensione, età in cui non si ha, di norma, né la forza né la volontà di fare alcunché. Ogni anelito innovativo viene, dunque, smorzato nel nome della sacralità del lavoro. È per questo che la nostra società glorifica il lavoro e teme la disoccupazione come la più grande piaga esistenziale. Non importa quale lavoro si abbia, l’importante è lavorare. E se non si lavora, si diventa “fannulloni”, “buoni a nulla”, “smidollati”. Tutto questo lessico sanzionatorio non è casuale, ma serve a sostenere quotidianamente la perpetuazione del lavoro per come lo conosciamo.

Il lavoro occupa le nostre vite, il nostro tempo, assorbe quasi interamente le nostre energie. Per rendere tutto ciò giustificabile agli occhi dei lavoratori, è necessario creare una retorica nobilitante che avvolge come una patina dorata il proprio oggetto di riferimento, facendolo apparire quasi magico, sicuramente dignitoso. Si pensi all’uso del verbo “sistemarsi” per descrivere la condizione di chi ha trovato un impiego stabile. Quanti riflettono sul fatto che “sistemarsi” vuol dire “entrare a far parte del sistema”, un termine fino a qualche anno fa inviso ai più per le sue connotazioni eccessivamente conformistiche? Si pensi, inoltre, che altri termini connotati positivamente dal lessico comune nascondono un’origine servile e strumentale: “impiegato” è il participio passato di “impiegare”, ossia, “usare”, “adoperare”, ma se tutti, o quasi, ambiscono a essere “impiegati”, a nessuno piace definirsi “usato”. “Dipendente” è il participio presente del verbo “dipendere”, che rimanda a una condizione di subalternità. “Dipendere” da qualcuno è visto come un ostacolo all’autonomia personale nella nostra società, eppure tanti aspirano a essere “dipendenti” pubblici o privati.  “Funzionario” significa “destinatario di una funzione”, espressione che appare ridurre l’essere umano all’ingranaggio di un meccanismo, eppure diventare “funzionario” è l’ambizione di molti concorsisti pubblici. La retorica nobilitante del lavoro riesce a far apparire attraenti condizioni che non lo sono, conferendo loro status e prestigio. Un’operazione affine alla magia che rende prevedibile e controllabile il comportamento umano, impedendo, però, come sosteneva Nietzsche, il potenziarsi della ragione e il desiderio d’indipendenza.

In questo senso, si può dire che il lavoro svolga un’azione disciplinare sui lavoratori, esercitando un controllo totalitario su di essi attraverso l’imposizione di un’occupazione monotona e avvilente, gabbie temporali predeterminate simbolizzate da timbrature all’entrata e all’uscita, obiettivi alienanti e impersonali, forme di sorveglianza sempre più intrusive. Il risultato è un impoverimento sistematico delle potenzialità umane, magistralmente espresso dall’anarchico Bob Black:

Tu sei ciò che fai. Se fai un noioso, stupido, monotono lavoro, hai buone probabilità di diventare noioso, stupido e monotono. Il lavoro è la migliore spiegazione per il cretinismo strisciante attorno a noi, più dei pur notevoli meccanismi di rimbambimento quali televisione e istruzione. Persone irreggimentate per tutta la vita, sospinte dalla scuola al lavoro, rinchiuse all’inizio in famiglia e alla fine in case di cura, sono abituate alla gerarchia e schiavizzate psicologicamente. La loro attitudine all’autonomia è così atrofizzata che la paura della libertà è tra le loro poche fobie razionalmente fondate. L’addestramento alla dedizione verso il lavoro si svolge nelle famiglie dove nascono, riproducendo così il sistema in diversi modi, nella politica, nella cultura, e in ogni altro settore. Una volta che togli vitalità alla gente sul lavoro, facilmente si sottometterà alla gerarchia e agli esperti ovunque (Black, 2023, pp. 32-33).

Per Aristotele una vita degna era indipendente dalle necessità e dalle relazioni che da queste scaturivano. Ogni modo di essere dedito esclusivamente alla conservazione della nuda vita era considerato una forma inferiore e non libera di esistenza. La vita vera, degna, era quella consacrata a cose né necessarie né semplicemente utili: il bello, la polis, la filosofia. Solo la libertà dalla necessità portava alla felicità (l’eudaimonia) che era una condizione legata innanzitutto alla ricchezza e alla salute. Portando alle estreme conseguenze questa riflessione, il lavoro era giudicato una sorta di malattia in quanto imponeva una necessità che impediva la piena libertà. Certo di acqua ne è passata sotto i ponti da quando Aristotele diceva queste cose, e la nostra società, basata sul lavoro, è stata costretta a glorificarlo per poter progredire. Milioni di vite che aristotelicamente sarebbero indegne hanno così trovato un senso alle loro esistenze finalizzate al necessario, al non bello. Celebriamo ipocritamente il lavoro perché non possiamo farne a meno. Ma la realtà è che il lavoro rende schiavi, assoggetta, rende mansueti e priva della libertà creativa e di vivere.

Ciò vale anche nella contemporaneità, dove abbondano quelli che l’antropologo David Graeber (1961-2020) chiama bullshit jobs (“lavori di merda”). Per Graeber, in una società come la nostra, in cui il significato del lavoro è fine a sé stesso,

Siamo arrivati al punto di credere che uomini e donne che non lavorano quanto dovrebbero o che sono impegnate in occupazioni che non amano particolarmente siano cattive persone, che non meritano amore, cura o assistenza da parte della comunità. È come se avessimo collettivamente acconsentito al nostro stesso asservimento. Quando ci rendiamo conto che per la metà del tempo siamo impegnati in attività del tutto prive di significato o perfino controproducenti – in genere agli ordini di una persona che non ci piace –, la prima reazione politica consiste nel ribollire di risentimento perché altre persone potrebbero non essere cadute nella medesima trappola. Di conseguenza odio, rancore e sospetto sono diventati il collante che tiene assieme la società (Graeber, 2018, p. 20).

Graeber definisce bullshit jobs quelle occupazioni retribuite che sono così totalmente inutili, superflue o dannose che nemmeno chi le svolge può giustificarne l’esistenza, anche se si sente obbligato a far finta che non sia così (Graeber, 2018, p. 31). Secondo l’antropologo statunitense, nella nostra società esistono almeno cinque categorie di lavori senza senso: il tirapiedi (flunky), lo sgherro (goon), il ricucitore (duct taper), il barracaselle (box ticker), il supervisore (taskmaster).

I tirapiedi esistono solo o principalmente per far sembrare o sentire importante qualcun altro. Alcuni esempi sono: gli uscieri e le guardie del corpo.

Gli sgherri presentano una componente di aggressività ed esistono solo perché altri li impiegano. Esempi: lobbisti, addetti al telemarketing, lobbisti.

I ricucitori sono dipendenti i cui lavori esistono solo per un difetto o una mancanza nell’organizzazione; sono lì per risolvere un problema che non dovrebbe esistere. Un esempio sono coloro che hanno il compito di rimediare agli errori dei superiori.

I barracaselle sono dipendenti che esistono solo o principalmente per consentire a un’organizzazione di affermare che sta facendo qualcosa che in realtà non sta facendo, come chi è addetto a compilare moduli che non hanno alcuna utilità.

I supervisori, infine, sono individui il cui lavoro consiste unicamente nell’assegnazione di lavoro ad altri o nel creare mansioni senza senso da far svolgere ad altri.

Una volta che si è consapevoli di tutto questo, come è possibile continuare a ripetere che “il lavoro nobilita l’uomo”?

Riassumiamo.

Il lavoro nella società contemporanea rappresenta una condizione sconfortante, avvilente, deprimente. Tanto più in quanto pretende di assorbire gran parte del nostro budget temporale ed energetico.

Il lavoro uccide non solo il tempo che dedichiamo al lavoro, ma anche il resto del tempo: quello che dedichiamo ai giochi, alle vacanze, al “tempo libero”, che, in realtà, è tempo destinato al recupero delle forze una volta che queste sono state svuotate dal lavoro e serve a ricaricarci in vista di nuove “sedute di profonda alienazione”.

Il lavoro “ci disciplina”, facendo di noi degli esseri “ragionevoli” e “maturi”, termini con i quali si certifica la totale integrazione passiva dell’individuo nel sistema di cui fa parte. Ci disciplina anche nel senso che plasma i nostri desideri, la nostra volontà, le nostre pulsioni in modi che, prima di iniziare a lavorare, non condivideremmo di certo.

Il lavoro ci schiavizza, costringendoci a venderci in cambio di denaro e trasformando la nostra dignità in una merce come tante altre.

Il lavoro ci rende individui malati e fragili: ci fa ammalare a causa delle posture innaturali che ci costringe ad assumere e ci rende fragili psichicamente perché senza di esso sentiamo di non valere niente.

Il lavoro limita la nostra libertà, obbligandoci a rimanere nello stesso luogo e in compagnia delle stesse persone per giorni, mesi e anni.

Il lavoro rende indolenti le nostre facoltà mentali e intellettuali, incanalandole verso attività stagnanti, stabilite da altri.

Insomma, viene voglia di dire, con Bertolt Brecht, «Che cos’è l’omicidio di un uomo di fronte alla sua assunzione?» (Brecht, 2018, pp. 87-88).

Riferimenti

Black, Bob, 2023, L’abolizione del lavoro e altri saggi, Ortica Editrice, Aprilia (LT).

Brecht, B., 2018, “L’opera da tre soldi”, in I capolavori, vol. I, Einaudi, Torino.

Godard, P., 2011, Contro il lavoro, Elèuthera, Milano.

Graeber, D., 2018, Bullshit jobs, Garzanti, Milano.

Lafargue, P., Russell, B., 1992, Economia dell’ozio, Olivares, Milano.

Nietzsche, F., 1981, Aurora, Mondadori, Milano.

Orwell, G., 1986, 1984, Mondadori, Milano.

Pertosa A., Santoni L., 2017, Lavorare sfianca, Enrico Damiani Editore, Salò, Brescia.

Rensi, G., 2012, Contro il lavoro, Gwynplaine, Camerano (AN).

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“Borghesia e burocrazia” di Claudio Treves

Si avverte una allarmante sensazione di dejà vu, leggendo “Borghesia e burocrazia” di Claudio Treves (1869-1933), articolo scritto nel 1894 per la rivista La critica sociale e qui da me trascritto. Giornalista e socialista, Treves è noto, oltre che per il suo impegno politico, per aver sfidato a duello Mussolini nel 1915, non riuscendo a provocargli che qualche lieve ferita. Pacifista e convinto antifascista, fu esiliato in Francia, dove morì nel 1933. Le sue ceneri vennero riportate in Italia soltanto il 10 ottobre 1948, dopo la conclusione del bando fascista.

Di chi e di cosa parla “Borghesia e burocrazia”? Degli impiegati pubblici. E come ne parla? Descrivendo un atteggiamento bipolare dell’opinione pubblica (e politica) nei confronti di questa categoria di lavoratori, che ricorda molto quanto accade da trent’anni in Italia.

Ci fu un tempo, afferma Treves, in cui era considerato dovere civile dare addosso ai travet nostrani, accusandoli di essere «cavallette, noiose, pedanti e divoratrici del pubblico erario». I funzionari pubblici venivano derisi, denigrati, umiliati. Si coniò perfino un neologismo – “impiegomania” – per designare una precisa deriva morale degli italiani, indicati sdegnosamente come “popolo di impiegati”.

Al tempo stesso, gli impiegati erano visti come un male necessario dalle forze borghesi conservatrici, le quali, procurando «al maggior numero di diplomati e di laureati un posticino sicuro, famelico sì ma pensionato», miravano a sopire eventuali velleità rivoluzionarie, o semplicemente ribellistiche, di masse di individui munite di titolo di studio e aspettative crescenti. Il “posto fisso”, dunque, come misura strategica per sedare e disinnescare possibili moti di contestazione della società classista. Una vecchia tattica politica, adottata a mani basse già nei primi anni dell’Italia repubblicana a scopo clientelare, che può essere sintetizzata nella seguente formula: concedi al tuo (potenziale o reale) nemico o elettore una prebenda, un’occupazione di prestigio o semplicemente un posto di lavoro, instilla in lui (o lei) l’illusione di far parte del “sistema”, e tutta la sua rabbia e le sue grida contro le ingiustizie sociali svaniranno, mentre conquisterai i suoi voti.

Qualcosa di simile sembra essere avvenuto negli ultimi tempi in Italia. Tutti ricordiamo le invettive degli Ichino e dei Brunetta contro i dipendenti pubblici, accusati di essere fannulloni incompetenti, inefficienti e privilegiati o, in alternativa, “furbetti del cartellino”, contro cui adoperare misure draconiane e paradossali: basti pensare alla cosiddetta “trattenuta Brunetta” che decurta la retribuzione per i primi dieci giorni di malattia dell’impiegato, nella convinzione che per il dipendente pubblico la malattia è per definizione una finzione. In questo caso, lo stereotipo dell’impiegato che simula la malattia diviene immediatamente realtà incontestabile con la conseguenza paradossale che il dipendente pubblico è considerato potenzialmente immune da malattia, forse immortale, per cui se dice di stare male è perché sta fingendo. Incidentalmente, tale “visione” ricorda da vicino quella del sociologo americano Talcott Parsons, secondo il quale il malato è un deviante (sick role) perché non in grado di assolvere i ruoli che la società prevede per esso.

E che dire poi della vera e propria campagna d’odio contro i dipendenti pubblici, istituzionalizzata con la nomina a ministro della pubblica amministrazione proprio di Renato Brunetta, l’odiatore della categoria per eccellenza, forte del consenso di tanti non-impiegati pubblici, accecati dall’invidia sociale, ma ciechi anche di fronte alle disuguaglianze sociali crescenti che caratterizzano la nostra società a capitalismo avanzato?

La propaganda contro i dipendenti pubblici, avviata sulla scia degli “scandali” dei furbetti del cartellino, opportunamente strumentalizzati per fomentare l’indignazione pubblica, ha reso i lavoratori pubblici un facile bersaglio e un’agile forza acceleratrice del malcontento popolare che ha trovato così il suo suitable enemy (“nemico appropriato”) su cui riversare catarticamente la propria rabbia. Il tutto senza che nessuno, se non pochi, si sia reso conto che tale propaganda serve a distogliere l’attenzione del paese dalla progressiva erosione dei diritti sociali dei cittadini, che oggi vedono messe in pericolo le grandi conquiste del welfare state, a cominciare dalla previdenza, il cui godimento è rimandato sempre più in là nel tempo tanto che già si prospetta l’immagine inquietante del dipendente pubblico costretto a lavorare con bastone, catetere e ausili per l’udito per guadagnare un diritto che evidentemente non è più percepito come tale.

Schizofrenicamente, però, alle invettive propagandistiche contro le inefficienze e le carenze del pubblico impiego, si è affiancata di recente una campagna istituzionale di segno opposto, contrassegnata dallo slogan “Più che un posto fisso, un posto figo!”, che vorrebbe «scardinare i vecchi stereotipi per raccontare come sta cambiando la Pubblica amministrazione, scoprire le opportunità del pubblico impiego e il valore di lavorare per la collettività». Così, dopo che autorevoli rappresentanti dello Stato hanno per decenni mortificato il pubblico impiego, tacciandolo di ogni possibile nefandezza e rendendolo inviso all’opinione pubblica, gli stessi rappresentanti vorrebbero ora renderlo cool con l’aiuto di qualche video che mostra sorridenti impiegati pubblici al lavoro.

La ragione di tale inversione di tendenza è nota: la pubblica amministrazione ha bisogno di personale e le campagne di odio nei confronti del pubblico impiego non rendono facile il compito del reclutamento. Meglio, allora, una bella dose di marketing in salsa ottimistica per rendere appetibile un prodotto reso nauseante da decenni di propaganda ostile.

Ma forse, come insegna Treves, l’obiettivo delle recenti iniziative di assunzione del pubblico non è solo riempire organici in affannosa difficoltà, ma anche sottrarre a possibili tentazioni contestatarie quote di popolazione umiliate dalla scelleratezza della società neoliberista in cui viviamo. Una forma di cooptazione per attenuare possibili derive protestatarie in società come quelle odierne caratterizzate da percentuali croniche di inoccupazione e disoccupazione.

Ma, se questo è vero, non dobbiamo, comunque, dimenticare il monito finale del socialista Treves, il quale, sempre in “Borghesia e burocrazia” si domandava se «è avventatezza prevedere che, precipitando i fati, un giorno, un bel 27 del mese, lo Stato borghese, dopo aver divorato tutte le forze vive della produzione, costretto da una necessità imprescindibile darà ordine di chiudere gli sportelli delle tesorerie».

Sembra fantascienza, ma se una lezione vogliamo trarre dallo scritto del giornalista torinese è che non dobbiamo mai dare nulla per scontato, nemmeno che il lavoro pubblico continuerà così come è per sempre. La storia ci insegna che ciò che gli uomini e le donne creano cambia in continuazione. Potrebbe cambiare anche il “27 del mese”.

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Le origini religiose della “musica del diavolo”

Rock and roll e religione. Il diavolo e l’acqua santa. Potrebbe mai esserci una contrapposizione più netta di questa? Del resto, sin dalla sua nascita, il “genere rock” è stato bersaglio di invettive e condanne da parte di predicatori, sacerdoti e moralisti che ne biasimavano la natura peccaminosa e “demoniaca”.

Eppure, come osserva lo storico Randall J. Stephens, autore di “Where else did they copy their styles but from church groups?”: Rock ‘n’ Roll and Pentecostalism in the 1950s South (2016), il rock deve moltissimo alla religione, in particolare, al pentecostalismo del sud degli Stati Uniti che, sin dagli anni Venti del XX secolo, trasformò la scena religiosa americana, introducendo ritmo, energia e musica nelle sue manifestazioni.

I campioni del rock degli anni Cinquanta – Elvis Presley, Johnny Cash, Little Richard, Jerry Lee Lewis, James Brown – erano tutti originari del sud degli Stati Uniti dove le chiese pentecostali avevano, da tempo, infranto i vecchi stereotipi cupi e grigi associati al protestantesimo tradizionale. Avevano, ad esempio, introdotto gli strumenti musicali nelle funzioni religiose, tra cui il pianoforte, la batteria, gli ottoni e perfino la chitarra. Avevano, inoltre, trasformato le polverose prediche di un tempo in occasioni di allegra convivialità, condotte da pastori carismatici che erano l’esatto opposto dei sacerdoti uggiosi della tradizione cattolica e protestante.

Crescendo in questo ambiente, i pionieri del rock ne assorbirono il fascino, l’energia, perfino i movimenti. Spesso, fu proprio qui che cominciarono a esibirsi ed è da questo ambiente che trassero le prime idee musicali e gestuali. Nel 1958, intervistato sul perché dimenasse il bacino come un ossesso sul palco, Elvis Presley rispondeva: «Canto come cantano nel mio paese. Quando ero più giovane, mi piacevano i quartetti spirituali. Cantano proprio così». Little Richard confessò che, da giovane, avrebbe voluto fare il pastore e di Aretha Franklin si disse che, nei suoi versi, si limitò a sostituire la parola baby a Jesus.

Le chiese evangeliche e pentecostali dell’epoca enfatizzavano il “miracolo” della rinascita spirituale, la meraviglia delle opere di Dio, il parlare “in lingue”, i pericoli concreti dell’azione del Diavolo, la necessità di frequentare le funzioni religiose. Tutto questo si traduceva in una forte enfasi sulla presenza, la parola, la gestualità e la musica. Per i fedeli di queste chiese, la “vera” religione era una religione fatta di movimento, vivacità, teatralità, entusiasmo costante, mani costantemente battute, corde vocali ripetutamente sollecitate, in un trionfo di fede e disinibizione. Nomignoli come bible thumpers e holy rollers, con cui venivano designati, spesso sprezzantemente, i fedeli delle chiese pentecostali, comunicano più di tante parole l’atteggiamento nei confronti della religione di migliaia di persone che si riconoscevano nel pentecostalismo. 

Eppure, come detto, fu spesso proprio dai pulpiti della religione che partirono le più veementi critiche nei confronti del rock, accusato di essere volgare, di incoraggiare l’adorazione di Satana, di abbattere le barriere razziali, favorendo il mescolamento di bianchi e neri, di promuovere il comunismo, di corrompere selvaggiamente la moralità delle giovani generazioni e di iniziarle precocemente a una forma degenerata di sessualità. Alcuni predicatori giunsero a definire il rock and roll come un culto in sé, una manifestazione soprannaturale degli inferi, una trappola per attirare milioni e milioni di giovani nelle spire del Demonio.

Oggi, queste contrapposizioni sono decisamente superate. È raro trovare un predicatore che tuoni contro la musica rock come un tempo. Anzi, esiste addirittura un rock cristiano a testimonianza della capacità fagocitante del cristianesimo nei confronti di quasi tutte le manifestazioni culturali.

La storia del rock ci insegna, però, che spesso gli (apparentemente) opposti si toccano più di quanto non si immagini. Del resto, anche Satana, in origine, era un angelo!

Fonte

Randall J. Stephens, 2016, “‘Where else did they copy their styles but from church groups?’: Rock ‘n’ Roll and Pentecostalism in the 1950s South”, Church History, vol. 85, n. 1, pp. 97-131.

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Il rosario con il metodo del “come se”

Fake it till you make it (“Fingi fino a quando non ci riuscirai”) recita un vecchio adagio anglofono secondo il quale, simulando un determinato comportamento, anche senza credervi, prima o poi si finisce con l’adottare quel comportamento in maniera autentica.

Uno dei maggiori sostenitori di questa tesi è lo psicologo americano William James (1842-1910), il quale più volte nella sua opera torna su questo tema. Un esempio è costituito da un brano di un suo scritto divulgativo intitolato The Gospel of Relaxation.

Le azioni sembrano seguire le emozioni, ma azioni e sentimenti vanno di pari passo; regolando le azioni, che sono più sotto il diretto controllo della volontà, possiamo indirettamente regolare i nostri sentimenti, i quali non sono direttamente controllabili.

Pertanto, il percorso sovrano volontario verso l’allegria, se si perde la nostra allegria spontanea, è di sedersi allegramente, di guardarsi attorno allegramente e di agire e parlare come se l’allegria fosse già lì. Se tale condotta non ti fa sentire presto allegro, nient’altro in quell’occasione può farlo. Quindi, per sentirti coraggioso, comportati come se fossimo coraggiosi, usa tutta la nostra volontà a tal fine e un attacco di coraggio molto probabilmente sostituirà quello di paura (William James “The Gospel of Relaxation” in James, W., 1911, On Vital Reserves. The Energies of Men. The Gospel of Relaxation, Henry Holt and Company, New York, pp. 45-46).

Se comportandoci da coraggiosi si acquista coraggio, simulando la preghiera del rosario si diventa ardenti apostoli del rosario?

Di ciò era convinto, il filosofo Blaise Pascal (1623-1662), il quale in un capitolo dei suoi Pensieri, afferma:

Ma riconoscete almeno che la vostra impotenza di credere proviene dalle vostre passioni, dacché la ragione vi ci porta, e tuttavia non potete credere. Adoperatevi, dunque, a convincervi non già con l’aumento delle prove di Dio, bensì mediante la diminuzione delle vostre passioni. Voi volete andare alla fede, e non ne conoscete il cammino; volete guarire dall’incredulità, e ne chiedete il rimedio: imparate da coloro che sono stati legati come voi e che adesso scommettono tutto il loro bene: sono persone che conoscono il cammino che vorreste seguire e che son guarite da un male di cui vorreste guarire. Seguite il metodo con cui hanno cominciato: facendo, cioè, ogni cosa come se credessero, prendendo l’acqua benedetta, facendo dire messe, ecc. In maniera del tutto naturale, ciò vi farà credere e vi abbruttirà (Blaise Pascal, 1987, Pensieri, Mondadori, Milano, p. 164).

Ecco, dunque, un metodo per credere e divenire ottimi osservanti religiosi. Fare ogni cosa come se ci credessimo davvero al fine di crederci davvero. Lo stesso metodo è suggerito dai cultori del rosario, i quali raccomandano di dedicarsi ininterrottamente a questa pratica per divenirne cultori.

Sembra paradossale, ma “fingere” la credenza ripetutamente può “creare” il vero credente.

Se volete saperne di più su questo strano meccanismo della mente, vii rimando al mio La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario (Meltemi, 2024).

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Merton e le conseguenze inattese dell’azione sociale

“The Unanticipated Consequences of Purposive Social Action” (1936) di Robert K. Merton (1910-2003) rappresenta ancora oggi uno degli articoli più influenti della letteratura sociologica internazionale. Per il norvegese Jon Elster, l’articolo può essere annoverato tra i classici della sociologia, oltre a essere tra i più citati. Esso ha influenzato sociologi contemporanei come lo stesso Elster, Giddens, Beck, Elias. Per Alejandro Portes, la lezione di Merton ha fatto della sociologia la disciplina dell’analisi dell’inatteso. I concetti di Merton si sono dimostrati prolifici anche a livello applicativo: sono diversi gli studi che hanno tentato di saggiarne la capacità analitica in riferimento alla tecnologia, alle organizzazioni, ai mutamenti climatici, agli ambienti educativi, alle attività istituzionali, alla creazione di norme, alla politica.

Stranamente, come spesso accade in Italia, l’articolo non è stato mai tradotto nella nostra lingua o, se lo è stato, la traduzione si trova ormai in qualche polverosa, sebbene meritoria, antologia di autori.

Dal miracolo di San Gennaro ai comportamenti aggressivi dei tifosi, dagli effetti “perversi” delle moderne tecnologie alla scomparsa della scatologia telefonica, sono molti i fenomeni sociali che possono essere spiegati attraverso il modello delle “conseguenze non previste dell’azione sociale dotata di scopo”.

Qui potete trovare la traduzione dell’articolo di Merton con una mia corposa introduzione.

Un testo che merita di essere letto e meditato.

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“Strane” preghiere nella Bibbia

Fare una ricognizione delle preghiere presenti nella Bibbia è impresa improba, complicata dal fatto che spesso la preghiera si presenta sotto forma di voto o invocazione e che il libro dei Salmi nell’Antico Testamento è un libro interamente di preghiere. Le preghiere sono dappertutto, anche perché rappresentano l’unico modo lecito di comunicare con Dio. Non si parla con Dio come si parlerebbe con un altro essere umano. Il rapporto non può che essere asimmetrico e la Bibbia è un libro comunicativamente asimmetrico.

Vorrei soffermarmi in questa sede su due preghiere contenute nel Vecchio Testamento che hanno attirato la mia attenzione.

La prima si trova in Genesi 28,20-22 ed è così descritta:

Giacobbe fece un voto, dicendo: «Se Dio è con me, se mi protegge durante questo viaggio che sto facendo, se mi dà pane da mangiare e vesti da coprirmi, e se ritorno sano e salvo alla casa di mio padre, il SIGNORE sarà il mio Dio e questa pietra, che ho eretta come monumento, sarà la casa di Dio; di tutto quello che tu mi darai, io certamente ti darò la decima».

Secondo Origene (185-214), uno dei più importanti teologi cristiani dei primi tre secoli, la preghiera appena citata può essere considerata la prima preghiera della Bibbia ed è curioso osservare che proprio la prima preghiera della Bibbia è una proposta di… voto di scambio. Sì, esattamente così. Il voto di Giacobbe promette a Dio la decima a condizione che questi lo faccia ritornare a casa sano e salvo, non dissimilmente da quanto farebbe un cittadino comune pronto a votare per un candidato in cambio di un favore di qualche tipo. Insomma, la prima preghiera della Bibbia non appare esattamente disinteressata. Un po’ come succede ancora oggi dal momento che la maggior parte delle preghiere rivolte a Dio riguarda la concessione di qualcosa che, per lo più, attiene alla salute, all’amore o al lavoro.

La seconda preghiera si trova in Esodo 17, 8-16:

Allora Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalek. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalek, mentre Mosè, Aronne, e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek. Poiché Mosè sentiva pesare le mani dalla stanchezza, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo passandoli poi a fil di spada. Allora il Signore disse a Mosè: «Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè: io cancellerò del tutto la memoria di Amalek sotto il cielo!». Allora Mosè costruì un altare, lo chiamò «Il Signore è il mio vessillo» e disse: «Una mano s’è levata sul trono del Signore: vi sarà guerra del Signore contro Amalek di generazione in generazione!

Sì, avete capito bene. La preghiera di Mosè è efficace solo finché le mani del liberatore del popolo di Israele sono alzate. Non appena le lascia cadere, gli effetti dell’invocazione vengono meno al punto che Aronne e Cur sono costretti a sostenere le sue braccia! Come dire che la potenza della preghiera dipende non da ciò che si dice, ma dalla gestualità sottomessa che accompagna la parola. Il Dio di Esodo è un Dio che non dialoga con l’uomo da pari a pari, ma esige una costante sottomissione, perfino quando si prega. Solo prostrandosi in modo bizzarro e servile, l’uomo può sperare di avere un favore dalla divinità. Le sue mani devono essere sempre in alto, ben visibili dall’alto dei Cieli o il favore della divinità andrà ad altri. Più che una preghiera, un ricatto, una forma di sadismo, una prevaricazione.

Nella Bibbia sono presenti decine di preghiere “strane”. Sarebbe interessante raccoglierle e commentarle tutte.

In attesa che ciò avvenga, vi raccomando la lettura del mio La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario, che offre un punto di vista inedito su una delle più straordinarie preghiere inventate dalla tradizione cattolica.

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Il mito dei dilettanti e dei professionisti nello sport

Possiamo dire che, a causa del barone de Coubertin siamo vittime di un grave fraintendimento – anzi di una vera e propria mistificazione – a proposito della dicotomia “atleta dilettante” – “atleta professionista”.

Come è noto il barone rifondò i giochi olimpici individuandone l’essenza nella distinzione tra dilettanti e professionisti. Solo i primi potevano partecipare ai giochi perché ritenuti “puri” e incarnanti il vero spirito della competizione. de Coubertin traeva questa convinzione dall’idea che nel mondo greco vi fosse una netta distinzione tra le due categorie: dilettante è un atleta che non trae profitto economico dallo sport; professionista è un atleta che ricava un guadagno dalla sua attività sportiva. A questa distinzione si associava un giudizio etico a tutto favore del primo e a scapito del secondo. Escludere, quindi, i professionisti dai giochi Olimpici era la logica conseguenza di questo modo di pensare.

Il problema è che quello del “dilettante” è un mito che falsamente si vuole attribuire alla Grecia antica. Come racconta la storica Paola Angeli Bernardini:

I Greci che si dedicavano all’agonistica sportiva non erano «gentlemen» inglesi e dalla loro attività hanno sempre tratto grossi vantaggi economici, politici e sociali. Ciò non significa che in qualche antica città della Grecia non vi fossero atleti nobili e ricchi interessati a gareggiare più per l’onore della vittoria […] che per premi tangibili, ma significa che di questa possibilità si è voluto fare una regola e che si è voluto vedere un modello là dove non c’era.

In realtà non risulta che i Greci si ponessero il problema del dilettantismo e del professionismo in maniera così drammatica. Partiamo dal dato linguistico che è quello che può fornire una prima indicazione. Esiste un termine greco per indicare l’atleta dilettante? Ne esiste uno per indicare l’atleta professionista? Intanto le parole che più comunemente definiscono colui che pratica lo sport agonistico sono athletès la cui radice si ricollega a àethlos o athlos = gara, e agonistès che è formato su agòn = lotta, scontro. Ad ambedue è estranea sia l’idea del dilettantismo, sia quella del professionismo. La prima accezione non compare in nessun termine greco antico, la seconda – che si esprime mediante termini come techne, epitèdeuma e i loro derivati – si applica a varie categorie di persone che esercitano una professione (attori, medici, allenatori, ecc.), ma non ricorre mai nei documenti ufficiali relativi agli atleti. Affiora, invece, negli autori che si servono di questa terminologia (ad es. kakotechnìa) per muovere critiche a coloro che si dedicano all’atletica (Angeli Bernardini, 1988, pp. XIV-XV).

Sono solo i moderni che hanno scorto in questa distinzione un motivo culturalmente rilevante, arrivando al punto di individuare nel professionismo la causa della decadenza dei giochi antichi.

In realtà, la vera distinzione era quella tra athletès, l’atleta che si dedica alla sua attività in maniera continua e costante, arrivando a possedere, grazie alla preparazione fisica, una tecnica e un’esperienza che lo distinguono dagli altri, e idiòtes, termine che non designa in greco colui che pratica lo sport senza ricavarne compensi, ma colui che si dedica alla pratica sportiva saltuariamente e senza un allenamento costante. La contrapposizione per i Greci non era, dunque, di tipo socioeconomico, ma riguardava piuttosto le modalità della prestazione (Angeli Bernardini, 1988, pp. XIV-XV).

Ancora oggi, paghiamo le conseguenze della credenza di de Coubertin, tanto da ritenere che il professionismo specializzato sia la causa di tutti i mali dello sport contemporaneo, accusato di essere campo d’azione di venali mercenari senza patria e senza bandiera in contrapposizione ai “veri” atleti di un tempo, più “poveri”, ma dotati di valori umani. La verità, però, è che, senza il professionismo, gli atleti per cui facciamo il tifo non sarebbero così capaci, competenti e preparati: solo una dedizione assoluta, e a tratti ossessiva, allo sport che si pratica consente, infatti, di ottenere risultati straordinari che nessun dilettante potrebbe mai sognarsi.

Per questo e altri miti sullo sport, in particolare sul calcio, rimando al mio: Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso dove propongo una interpretazione razionalmente critica di molti luoghi comuni sullo sport e sul calcio.

Riferimento

Angeli Bernardini, P. (a cura di), 1988, Lo sport in Grecia, Laterza, Roma-Bari

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Sociologia del caffè

Esiste una sociologia del caffè? Una distribuzione sociale del gusto per questa particolare bevanda? D’istinto potremmo rispondere negativamente. Oggi tutti bevono caffè. Ricchi e poveri, occidentali e orientali, americani ed europei.

Eppure, racconta lo storico e sociologo Wolfgang Schivelbusch, è esistita un’epoca in cui il caffè ha contraddistinto la borghesia in opposizione all’aristocrazia, maggiormente incline al cioccolato. In particolare, è esistita un’epoca in cui il caffè ha incarnato lo spirito razionalistico e pragmatico dei tempi moderni, in cui la sua essenza stava alla sete come Diderot e Voltaire stavano alle idee.

Scrive Schivelbusch:

Il borghese […] è un lavoratore sempre più di concetto; il suo posto di lavoro è l’ufficio, la sua posizione usuale è quella dello stare seduto. L’ideale che egli si propone è quello di funzionare con la costanza e la regolarità d’un orologio (si ricordi in proposito il modo di vivere di Kant).

È dunque evidente come questo nuovo modo di vivere e di lavorare influenzi tutto l’organismo; su tutto questo, il caffè agisce come droga d’importanza storica. Impregnando il corpo esso provoca, dal punto di vista chimico-farmacologico, ciò che il razionalismo e l’etica protestante ottengono dal punto di vista ideologico-spirituale. Attraverso il caffè il principio razionalistico trova l’accesso alla fisiologia dell’uomo e lo configura in modo corrispondente alle proprie necessità. Il risultato che ne consegue è un corpo che funziona secondo le nuove esigenze, un corpo razionalistico, borghese-progressista (Wolfgang Schivelbusch, 2000, Storia dei generi voluttuari. Spezie, caffè, cioccolato, tabacco, alcol e altre droghe, Bruno Mondadori, Milano, pp. 44-46).

A pensarci bene, ancora oggi il caffè contribuisce a plasmare il corpo in maniera razionalistica ed efficientistica: il caffè ridesta lo spirito, ravviva i sensi, rende funzionante e funzionale il lavoratore della società dei servizi, sempre più addicted a occupazioni impietose e cronofagocitanti.

Il caffè è oggi la droga voluttuaria più democratica che esista. La assumono tutti – borghesi e aristocratici – perché tutti sono chiamati a conformarsi ai ritmi di una società turbocapitalistica che va sempre più di fretta e ha bisogno di stimolanti che sorreggano l’attività di coloro che ne permettono il funzionamento.

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