Vi è mai capitato di pronunciare questa frase? Se siete come la maggior parte delle persone, probabilmente sì. Arriva un momento della nostra vita in cui ci convinciamo che i nostri sentimenti nei confronti di una persona rimarranno gli stessi all’infinito. Soprattutto l’amore, sostantivo a cui ci piace associare l’aggettivo “eterno”. Non a caso una frase come “Ti amerò per sempre” è diventata il claim di tanti film e serie TV in cui i protagonisti si scambiano rassicuranti attestazioni sulle proprie emozioni.
Questa convinzione è talmente robusta che non abbiamo problemi a dichiarare all’altro/a ciò che proviamo, magari aggiungendo: «Voglio invecchiare con te». È diventato, anzi, un luogo comune credere che il vero amore sia imperituro e che, se amiamo davvero una persona, il nostro sentimento rimarrà costante in ogni fase della nostra vita, dalla giovinezza alla maturità alla vecchiaia. Salvo poi ricrederci e renderci conto che, con l’andare del tempo, i sentimenti si trasformano e diventano altro. Non mutano necessariamente nel contrario, ma mutano. Come i nostri gusti alimentari, le nostre preferenze in fatto di musica, vestiti, lavoro, amici, tatuaggi.
E allora perché, nonostante la prova del tempo e dei fatti, ci ostiniamo a dire che il nostro amore è destinato all’eternità? Oppure, per scendere a un livello più prosaico, perché siamo certi che quella pietanza è e sarà per sempre la nostra preferita, che quella band ci farà provare sempre le stesse emozioni, che ameremo sempre quel lavoro, frequenteremo sempre quell’amico/a e voteremo sempre per quel partito? C’è forse qualcosa nella nostra mente che ci fa dire che il verde sarà per l’eternità il nostro colore preferito, che Enrico sarà il nostro best friend for ever, che i Beatles sono il nostro gruppo musicale prediletto, che quella rosa tatuata ci rappresenterà fino alla morte e che, naturalmente, Valeria sarà la donna della nostra vita, anche se poi cambieremo idea?
Sembra proprio di sì, stando a quello che affermano gli psicologi Jordi Quoidbach, Daniel T. Gilbert, Timothy D. Wilson (2013), autori di uno studio che battezza un nuovo fenomeno della psiche: The End of History Illusion ovvero “l’illusione della fine della storia”.
Che cos’è l’illusione della fine della storia? È la propensione illusoria, comune a individui di tutte le età, a credere che la propria personalità, i propri valori e le proprie preferenze rimarranno stabili e uguali a quelli attuali per sempre, sebbene in alcuni casi in passato siano cambiati in modo notevole. In altre parole, se interrogati al riguardo, le persone riconoscono di aver sperimentato importanti cambiamenti nel passato, ma prevedono che non ne sperimenteranno nel futuro, ovvero che i propri valori, tratti di personalità e gusti rimarranno più o meno stabili.
In uno studio che ha coinvolto complessivamente 19.000 persone, di età compresa tra i 18 e i 64 anni, Quoidbach, Gilbert e Wilson chiesero a un campione di soggetti di prevedere quanto sarebbero cambiati nei successivi dieci anni relativamente ad alcuni tratti di personalità, ad alcuni valori fondamentali e ad alcune preferenze (gusti e antipatie), e contestualmente a un campione simile di individui di riferire quanto erano cambiati nei dieci anni precedenti relativamente alle stesse variabili. Confrontando le previsioni delle persone di età pari a X anni con i resoconti delle persone di età pari a X +10 anni, gli sperimentatori si aspettavano che le prime prevedessero meno cambiamenti nei successivi dieci anni rispetto a quelli segnalati dalle seconde nei dieci anni precedenti. E, in effetti, è esattamente quello che accadde. Lo studio dimostrò che
le persone si aspettano di sperimentare meno cambiamenti nella loro personalità e nei loro valori fondamentali nel prossimo decennio rispetto a quelli che le persone di dieci anni più grandi dichiarano di aver sperimentato nel decennio precedente (Quoidbach, Gilbert, Wilson, 2013, p. 98).
In sostanza, le persone credono che ciò che sono oggi sia più o meno ciò che saranno domani, anche se non corrisponde a ciò che erano ieri. Detto altrimenti, si aspettano di cambiare poco nel futuro, nonostante sappiano di essere cambiate molto in passato.
Secondo i ricercatori, il fenomeno può verificarsi a causa di una resistenza al cambiamento o un timore dello stesso. Oppure perché si è soddisfatti dello stato attuale della propria vita e non si desidera che esso cambi. Oppure, dal momento che rievocare il passato è più facile che prevedere un cambiamento futuro, le persone preferiscono l’idea che il cambiamento sia improbabile alla difficile alternativa di immaginare un profondo cambiamento personale.
Gilbert collega il fenomeno anche al modo in cui gli esseri umani percepiscono il tempo in generale. Il tempo è una forza molto potente. Muta profondamente i nostri gusti, ridefinisce i nostri valori, modifica la nostra personalità. Il guaio è che capiamo questo solo con il senno di poi, quando guardiamo le cose del passato. Gli esseri umani sono opere in fieri che credono erroneamente di essere terminate. In ogni momento, le persone credono di essere “prodotti finiti” quando, invece, cambieranno costantemente nel corso della vita.
È per questo motivo che da giovani prendiamo decisioni in cui crediamo e di cui siamo convinti con tutto noi stessi, salvo poi rimpiangere da adulti di non aver deciso altrimenti. Un esempio classico è rappresentato dai tatuaggi. Da giovani, siamo convinti che quel tatuaggio che tanto amiamo ci accompagnerà per sempre, che ci rappresenterà per sempre, che sarà sempre parte di noi. Poi, da adulti, ci affrettiamo a cancellarlo perché non ci rappresenta più, ci è diventato estraneo e, anzi, ci meravigliamo della nostra scelta precedente. Abbiamo sottovalutato la nostra capacità di cambiare in futuro. Un altro esempio è dato dalla forza delle idee. Da giovani possiamo innamorarci profondamente di un’idea e pensare che vi dedicheremo la vita, salvo poi, con il tempo, renderci conto che non la pensiamo più allo stesso modo, che siamo cambiati divenendo altro da ciò che credevamo di essere. Alcuni sperimentano questa condizione come un tradimento del proprio sé autentico. In realtà, si tratta solo di un fisiologico mutamento di idee che, in gioventù, non siamo in grado di prevedere.
Questa incapacità sistematica di prevedere quanto cambieremo nel futuro, quanto cambierà la nostra personalità, quanto cambieranno i nostri valori e i nostri gusti, questa avversione a comprendere che la storia non finisce con il presente, che, se siamo cambiati fino a ora, ciò accadrà anche in futuro, ha delle profonde ricadute non solo in ambito individuale, ma pure sociale.
Quoidbach, Gilbert e Wilson battezzarono la loro “creatura” “illusione della fine della storia”, traendo spunto dalla celebre tesi del politologo Francis Fukuyama, elaborata nel 1992, all’indomani della caduta del muro di Berlino e del tramonto dei regimi comunisti, secondo cui, alla fine del XX secolo, l’umanità aveva ormai raggiunto l’apice della sua evoluzione sociale, economica e politica, rappresentata dal trionfo del capitalismo e del liberalismo democratico, e che non vi sarebbero stati più mutamenti nella storia.
La tesi di Fukuyama ricorda, per certi versi, quella di un autore molto diverso da lui come Oswald Spengler (1880-1936), convinto che, nel XIX secolo, l’Occidente fosse entrato in una fase di decadenza e si sarebbe presto estinto. Sebbene le loro conclusioni siano molto distanti l’una dall’altra, l’idea di fondo è che, a un certo punto, la storia dell’umanità cessa di evolvere, arrestandosi al presente. Un’illusione smentita dal fatto che sia nel XX sia nel XXI secolo, la storia ha continuato a mutare secondo linee di evoluzione non previste dai due autori.
Ritroviamo l’illusione della fine della storia anche in un giornalista come Luigi Barzini (1908-1984), autore, nel 1964, di un celebre libro sugli italiani. In esso, Barzini formulò la seguente profezia: «Il divorzio comincia ad essere adottato [in Italia] come una consuetudine dalla classe superiore. Naturalmente la legge ancora non lo contempla e non lo contemplerà mai. Non vi si oppone soltanto la Chiesa, ma la popolazione stessa lo considera giustamente un’istituzione barbara e rovinosa; la necessità di conservare qualche solido baluardo contro l’instabilità delle cose ne impedirà sempre l’adozione» (Barzini, 2001, p. 279).
Barzini credeva che vi fosse qualcosa nel carattere degli italiani che avrebbe per sempre reso impossibile l’approvazione di una legge sul divorzio. Si sbagliava, vittima della End of history Illusion. La legge sul divorzio sarà approvata in Italia nel 1970, appena sei anni dopo la pubblicazione del suo libro.
È possibile vedere all’opera l’illusione individuata da Quoidbach, Gilbert e Wilson ogni volta che una nuova invenzione viene scoperta. Quando ciò avviene, ci sono sempre dei detrattori pronti a scommettere che non durerà: questo è accaduto per i treni, le automobili, gli aerei, i computer. Ad esempio, l’invenzione della lampadina da parte di Thomas Edison (1847-1931) venne accolta con estremo scetticismo da altri scienziati come Henry Morton (1836-1902) dello Stevens Institute of Technology, sicuro che sarebbe stata un “fallimento certo”. Quando fu inventato il televisore, il produttore cinematografico Darryl Zanuck (1902-1979) dichiarò con piena convinzione, nel 1946, che le persone si sarebbero presto stufate di fissare ogni sera una scatola di compensato. Nel 1899, la rivista Literary Digest espresse scetticismo riguardo il fatto che l’automobile avrebbe soppiantato la bicicletta come mezzo di trasporto. Opinione sottoscritta, tre anni dopo, dal New York Times che definì le auto “poco pratiche”. Infine, nel 1977, Ken Olsen (1926-2011), fondatore della società di informatica Digital, affermò: «Non c’è nessun motivo perché qualcuno voglia avere un computer a casa», opinione destinata a essere clamorosamente smentita qualche decennio dopo.
I protagonisti di queste vicende sottovalutarono sistematicamente i cambiamenti che sarebbero intervenuti dopo l’introduzione della nuova scoperta e si dimostrarono incapaci di predire quanto il mondo sarebbe cambiato. La storia, per essi, si arrestava al presente.
L’illusione della fine della storia può essere utilizzata anche a fini pratici, se non pedagogici. Essa ci insegna che non dovremmo prendere le nostre decisioni esclusivamente sulla base dei nostri sentimenti attuali (“Sento che andrà tutto bene”) o del presupposto che le nostre preferenze del momento non cambieranno nel futuro. Ad esempio, intraprendere una carriera o un matrimonio senza riflettere sulla loro durabilità può avere conseguenze negative nel futuro.
È per questo, fra l’altro, che sorgono conflitti tra genitori e figli. I secondi tendono a prendere le loro decisioni sulla base delle idee o aspirazioni del momento, senza prendere in considerazione altri fattori la cui importanza si paleserà nel futuro e che saranno decisivi nella vita adulta. Ambiranno, ad esempio, a diventare grandi scienziati/scrittori/registi facendo leva su desideri ottimistici tipicamente giovanili. I primi chiameranno in causa elementi realistici che possono condizionare le scelte future dei secondi e con cui è necessario fare i conti, ma che sono sottovalutati dai figli. Ne può scaturire uno scontro di vedute che, in alcuni casi, può essere molto conflittuale. Il fatto è che i genitori “sanno” che cosa significa essere adulti; i figli immaginano di essere giovani in eterno, prede dell’illusione della fine della storia.
Questo significa che dovremmo sempre mettere in discussione le nostre scelte perché in futuro potrebbero cambiare? Se così fosse, saremmo condannati a una eterna paralisi. Banalmente, non potremmo più decidere perché ogni decisione correrebbe il rischio di essere revocata. L’illusione della fine della storia, però, non ci insegna questo. Ci mette semplicemente in guardia dal ritenere che tutto ciò che siamo adesso non potrebbe cambiare in futuro. Se vogliamo, ciò comporta una conseguenza ancora più inquietante, ma con cui la filosofia ci ha già costretto a fare i conti: il nostro sé non è fisso e stabile, ma cambia in continuazione. L’io del futuro potrebbe non essere in grado di riconoscere l’io del passato e viceversa (se ciò fosse possibile).
Se e cose stanno così, che ne facciamo dell’amore? Dovremmo smettere di amare nel presente perché l’io del futuro potrebbe non amare più o amare qualcun altro? Forse, una soluzione c’è e consiste nel venire a patti con una verità scomoda e tremenda, riassumibile nel titolo di un film di Carlo Verdone del 2004: l’amore è eterno finché dura. Poi chissà.
Riferimenti
Barzini, L., 2001, Gli italiani. Virtù e vizi di un popolo, BUR, Milano.
Fukuyama, F., 2023, La fine della storia e l’ultimo uomo, UTET, Torino.
Quoidbach, J., Gilbert, D. T, Wilson, T. D., 2013, “The End of History Illusion”, Science, vol. 339, pp. 96–98.
Spengler, O., 2008, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano.