Come la pronuncia di una “o” cambiò il nome di una città

Ci sono dei luoghi che, volenti o nolenti, evocano associazioni immediate e irresistibili, che ci danno l’illusione di conoscerli, anche se le nostre conoscenze reali si limitano a quelle poche associazioni.

È il caso di Sanremo, cittadina ligure della provincia di Imperia, nota ai più per essere sede dell’omonimo Festival della canzone italiana, la cui edizione 2025 si è appena conclusa, e per la coltivazione dei fiori, da cui il soprannome di “Città dei fiori”.

Certo, Sanremo è anche una località turistica, frequentata per la sua bellezza e per ospitare uno dei quattro casinò presenti in Italia. Ma è indubbio che, per i non liguri, la città è nota soprattutto perché evoca fiori e musica.

Quello che molti non sanno è che lo stesso nome della città cela una storia interessante, niente affatto misteriosa, ma rivelatrice di quello che suoni e parole sono in grado di fare.

Nell’antichità, la città era conosciuta come Civitas Matuciana, ma il nome subì una completa trasformazione nel Medioevo, dopo che, intorno al V secolo, nei boschi della città, visse un vescovo di Genova di nome Romolo, che concluse la sua vita terrena da eremita sul monte Bignone, alle spalle dell’odierna Sanremo.

A Romolo, la leggenda attribuisce numerosi prodigi tanto che, alla fine del X secolo, i cittadini decisero di cambiare il nome del paese in Civitas Sancti Romuli, ossia Città di san Romolo.

Ma se il luogo era dedicato a San Romolo, come mai la città è oggi conosciuta con il nome del fratello rivale del fondatore di Roma? Si trattò forse di una resipiscenza tardiva nei confronti del più bistrattato dei celebri gemelli romani?

Niente affatto. Secondo l’interpretazione più accreditata, la trasformazione del nome da “Romolo” a “Remo” avvenne a causa delle caratteristiche fonetiche della lingua ligure, in particolare per la tendenza degli abitanti del posto a rendere la “o latina” con “ö”, con la conseguenza che la dizione ligure di “Romolo”, “Romu”, venne pronunciata come “Rœmu” e quindi traslata, con il tempo, in “Remu”, di qui “Remo” (non a caso il nome della città è Sanrömu in dialetto locale).

Una trasformazione incredibile, dovuta esclusivamente a una peculiarità linguistica in grado di mutare un nome compiuto e dotato di senso in un altro nome compiuto e dotato di senso che, per motivi meramente casuali, risulta essere un nome storicamente associato al nome da cui ha origine foneticamente.

Questa tesi, apparentemente fantastica, è suffragata, peraltro, da precisi documenti storici che dimostrano come, in un lasso di tempo compreso fra il Trecento e il Seicento, i nomi Civitas Sancti Romuli e Civitas Sancti Remuli compaiano con pari frequenza, e talvolta nello stesso atto. Come in un rogito del 1359 in cui prima compare Civitas Sancti Romuli e poco dopo l’aggettivo Remoretus, mentre in un atto della Repubblica di Genova del 1681 si può trovare sia Civitas Sancti Romuli sia Magnifica Comunità di San Remo.

Insomma, Sanremo non c’entra nulla con Remo e tutto con Romolo, il cui nome, tuttavia, ha subito l’oblio della storia a causa di un peculiare suono locale, ricordato forse solo dagli storici e dagli abitanti della città.

Fonte:

Sanremo”, Wikipedia.

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Leopardi psicologo

Scorrendo le numerose pagine dello Zibaldone, è facile imbattersi in osservazioni, riflessioni, pensieri che, per acume e introspezione, terrebbero il passo di un trattato di psicologia contemporanea.

Si legga la seguente osservazione:

Una giovane nubile educata parte in monastero parte in casa con massime da monastero, esortava la sorella di un giovane parimente libero, a volergli bene, e le ripeteva questo più volte, e con premura, cosa di ch’io informato credetti che questo potesse essere un artifizio dell’amore che non potendo a cagione della di lei educaz. monastica operare direttamente, operava indirettamente facendole consigliare altrui un amor lecito, verso quell’oggetto, ch’ella forse si sentiva portata ad amare con amore ch’ella avrà stimato illecito (Giacomo Leopardi, 2022, Zibaldone, Mondadori, Milano, p. 27).

È certamente vero che, il più delle volte inconsapevolmente, tendiamo non solo ad attribuire ad altri sentimenti e stati d’animo che sono nostri, ma anche a incalzarli, sollecitarli, rimproverarli perché non alimentano quei sentimenti come noi vorremmo.

Nel caso citato da Leopardi, il meccanismo delle emozioni ha una evidente valenza compensatoria: una giovane, educata come una monaca, sprona la sorella di un giovane verso cui nutre palesi sentimenti amorosi – e quindi ritenuti illeciti – a volergli bene perché lei non ritiene di essere nella posizione di potergliene volere.

Si tratta di una forma di proiezione sull’altro a cui tutti noi ricorriamo quando vogliamo soddisfare vicariamente una passione che, per molteplici ragioni, non crediamo di poter soddisfare in prima persona.

Buona parte dell’industria del romanzo e del cinema si basa su questo meccanismo. Il lettore o lo spettatore sono condotti a identificarsi con altri, la cui esperienza probabilmente non potranno mai vivere direttamente, facendo il tifo per loro o opponendosi a essi con tutte le proprie forze, in questo modo vicariando una serie di vite potenzialmente infinite.

Non a caso uno degli slogan più in voga per promuovere la lettura (ma applicabile anche al cinema) è: “Leggere ti permette di vivere vite che non sono la tua”.

Leopardi, gran lettore, ne era già consapevole quasi 200 anni fa. Del resto, lo sappiamo. I grandi scrittori sono in grado di anticipare verità che saranno scoperte solo a distanza di anni.

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Ruoli e personalità

In sociologia, per “ruolo” si intende generalmente l’insieme di aspettative e norme a cui un individuo è tenuto a conformarsi per il fatto di occupare una determinata posizione all’interno della società. È uno dei concetti principali di questa disciplina. Su di esso sono stati scritti moltissimi testi e organizzate parecchie tesi di laurea.

Sarebbe un errore, però, ritenere che si tratti di un concetto puramente “intellettuale” con nessuna conseguenza sulla vita reale delle persone. La sociologia viene spesso accusata di formulare in termini inutilmente complicati le condotte quotidiane degli esseri umani e di limitarsi a tradurre l’ovvio in termini astratti. Le declinazioni contingenti del concetto di ruolo smentiscono questa accusa.

Basta leggere le seguenti parole, tratte da un testo di psicologia dell’organizzazione (quindi non di sociologia), per rendercene conto:

Tutti conosciamo qualcuno che stimavamo persona aperta, laica, critica, intelligente, che non appena si trova ad occupare un qualche incarico in una qualche organizzazione si trasforma completamente, «smette di ragionare con la sua testa» e ci appare dogmatico, chiuso, acritico, intollerante, ecc. Scartando l’ipotesi della stupidità generale e dilagante, dobbiamo allora riconoscere che il ricoprire un ruolo induce in tutte le persone modificazioni più o meno rilevanti di comportamento. D’altra parte, questa è proprio la ragione d’essere delle organizzazioni che tendono a fare interagire ruoli anziché individui (Depolo, M., Sarchielli, G. (a cura di), 1991, Psicologia dell’organizzazione, Il Mulino, Bologna, p. 39).

Chi lavora all’interno di un’organizzazione – quindi, quasi la totalità di coloro che lavorano – sa bene che cosa significhino queste parole. L’adesione a un ruolo ha il potere, talvolta, di modificare sensibilmente la personalità degli individui, rendendoli irriconoscibili a chi ha rapporti con loro al di fuori dell’organizzazione in cui lavorano. Persone estremamente simpatiche e affabili, una volta inserite in un ruolo, diventano antipatiche e insopportabili. Uomini gentili e affettuosi con le proprie consorti diventano incredibilmente aggressivi e intolleranti con i propri subordinati o colleghi. Donne apparentemente subordinate in famiglia diventano sorprendentemente dominanti ed esigenti al lavoro. Individui pigri nella vita quotidiana si trasformano in tipi energici mentre lavorano. Si potrebbe continuare.

I ruoli, lungi dall’essere una inutile astrazione sociologica, trasformano le persone, a volte in modi che ci lasciano stupefatti. Anzi, per alcuni, questo è uno dei misteri sociologici più profondi della vita di gruppo.

La realtà è che la società ci plasma e modifica continuamente, anche se spesso non ce ne rendiamo conto. Così come non ci rendiamo conto del fatto che le nostre interazioni ordinarie sono spesso interazioni fra ruoli piuttosto che fra persone.

È per questo che la sociologia è interessante: perché problematizza ciò che per la maggior parte di noi è ovvio e scontato. Tranne poi lasciarci a bocca aperta quando succede.

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Il nostro mondo barbaro (che però giudichiamo civile)

C’è un passo dello Zibaldone del Leopardi che contiene una riflessione controcorrente che ci aiuta a comprendere alcuni fenomeni della realtà contemporanea.

Per Leopardi, la barbarie scaturisce dai “progressi della ragione e della civiltà”, perché la ragione indebolisce, se non vanifica, le illusioni, le quali, però, forniscono l’impeto per le grandi azioni che fanno la storia, che altro non sono, in fondo, che “follie”. Le illusioni vanno sotto il nome di “amor di patria”, “ricerca della gloria”, potremmo aggiungere “religione”. La ragione riconduce a errori tali illusioni per cui, in una società “civile” nessuno si sente disposto a seguirle o a sacrificarsi per esse. Ne consegue che l’unica cosa che conta sono i piaceri materiali o, per esprimerci con termini moralistici, “l’avarizia, la lussuria e l’ignavia”.

Ne scaturisce, sorprendentemente per noi che siamo abituati a sentire decantate le lodi della civiltà, che «i progressi della ragione e lo spegnimento delle illusioni» producono la barbarie e che un popolo illuminato non è affatto civile, ma barbaro. Non solo. Ma «la più gran nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguita però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile».

Che le cose stiano in questi termini, è evidente nella nostra società, giudicata da tutti civilissima. Tutto ciò che interessa uomini e donne cresciuti nell’Occidente progredito sono i consumi materiali, che sono anzi diventati il motore vitale dell’economia su cui si regge il nostro mondo. A nessuno interessa compiere grandi azioni, sacrificarsi per una causa qualsiasi (che pazzia!), dedicare la vita a un’ossessione trascendente (qualsiasi essa sia).

A compiere le “grandi azioni” sono rimasti i “fanatici” religiosi, gli ossessionati dalle sorti climatiche del pianeta, gli estremisti politici e gli altri che la ragione definisce “esagerati”, “estremisti”, “folli” e che la psichiatria etichetta con le sue brave diagnosi a difesa della civiltà del lavoro e dei consumi.

Certo, viviamo in un mondo più sicuro, più comodo, in cui le uniche preoccupazioni sembrano essere dove trascorrere le vacanze di Natale e quale marca di cereali acquistare. Ma – ci dice Leopardi – un mondo privo di illusioni, un mondo che rifiuta le grandi azioni, è un mondo barbaro in cui regna l’egoismo e in cui, forse, non vale la pena vivere, anche se colmo di libri, cultura, scienza, storia.

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Elsa Morante e il segno della croce come superstizione

[…] e allora Quattro [un partigiano], con un sorrisetto contento, si faceva un segno di croce. Questo movimento, rimastogli attaccato dalle prime istruzioni infantili alla parrocchia, per lui non aveva attualmente nessun valore chiesastico; ma gli valeva per gesto familiare di buona fortuna o di scaramanzia (come uno che facesse le corna, o si desse una tirata i riccetti sotto i calzoni) (Elsa Morante, 1974, La storia, Einaudi, Torino, p. 299).

Quello che Elsa Morante ci dice in questo breve brano del suo capolavoro La storia è che i gesti religiosi, anche quelli più conclamati o scontati, posseggono un insieme di significati non sempre evidenti o consapevoli, che non possono ridursi all’unico legittimato dalle autorità chiesastiche, secondo cui esso è professione di fede, preghiera o benedizione.

Per la maggior parte dei cattolici, infatti, il segno della croce comunica abitudine acquisita durante l’infanzia, familiarità, ripetitività, ma anche gesto apotropaico, ossia per tenere lontano il male, o, in casi estremi, comportamento ossessivo-compulsivo. Come accade a Quattro, per molti credenti segnarsi equivale ad allontanare o superare piccole crisi quotidiane, ricordare a sé stessi e ad altri la propria identità, significare appartenenza, imitare ciò che fanno ogni giorno migliaia di persone.

Ci si segna, in altre parole, innanzitutto perché lo fanno i nostri simili sin dall’infanzia. Poi, si continua attribuendo al gesto significati che nessun sacerdote approverebbe, come quello di portafortuna.

Sì, perché farsi il segno della croce, per molti, è come toccare ferro o pronunciare una formula di scongiuro. Né più, né meno.

È così che la religione sopravvive: perché ai suoi significati ufficiali si sovrappongono tanti altri significati, alcuni dei quali innominabili.

Se volete saperne di più su questi aspetti dei gesti religiosi, vi rimando al mio La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario, che vi rivelerà storie e misteri legati a questa speciale devozione cristiana.

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A che cosa servono i poveri?

grayscale photography of man sitting

Potrebbe apparire bizzarro alla nostra sensibilità porsi un interrogativo del genere. Per noi contemporanei, la povertà è un problema a cui porre rimedio, se possibile estirpandola, non certo una condizione utile a qualcuno.

Eppure, nel Medioevo, ma in realtà fino all’epoca moderna, era diffusa l’idea che fare la carità ai poveri, donare loro elemosine, fosse di utilità al (ricco) benefattore, che ne avrebbe tratto vantaggio al momento del trapasso, quando, trovandosi al cospetto di san Pietro, avrebbe trovato la strada spianata per il Paradiso in virtù del suo comportamento caritatevole.

Secondo questa concezione, i poveri, allora, «sono necessari ai ricchi per salvarsi. Quindi, deve sempre esservi un povero da assistere, perché ciò consente al ricco di guadagnarsi la vita eterna tramite la carità».

Nella Vita di San Eligio si legge addirittura che «Dio avrebbe potuto creare tutti gli uomini ricchi, ma ha voluto che nel mondo ci fossero anche i poveri, per offrire ai ricchi un’occasione di riscatto dalle loro colpe». Corollario di questa concezione è che poveri e ricchi sono ruoli funzionali all’ordine sociale, destinati a non sparire mai affinché i ricchi trovino la loro salvezza ultraterrena. La povertà è una condizione inestirpabile e immutabile, gradita a Dio, a cui non bisogna porre rimedio, se non tramite l’elemosina.

L’elemosina diventa, dunque, un fattore di equilibrio sociale e il suo elogio «contiene in sé non solo la prospettiva di salvezza per i ricchi, ma una giustificazione della ricchezza stessa, una sua razionalizzazione ideologica». In un colpo solo, così, viene a crearsi un appiglio di salvezza per il ricco e a trovare fondamento ideologico la ricchezza delle classi dominanti. Un colpo da maestro, da prestigiatore, quasi, che priva di ragione qualsiasi rivendicazione ugualitaria nel nome del gradimento di Dio per la salvezza di pochi a scapito di molti. In realtà, i (molti) poveri hanno possibilità di salvezza proprio in quanto poveri perché le porte del Cielo sono sempre aperte a questi. L’importante è che restino poveri e non avanzino pretese “mostruose”.

Qualcuno potrebbe obiettare che tale concezione della povertà è roba da Medioevo. Ma si leggano le seguenti parole, pronunciate da papa Francesco durante la III Giornata Mondiale per i Poveri, nel 2019:

I poveri ci facilitano l’accesso al Cielo: per questo il senso della fede del Popolo di Dio li ha visti come i portinai del Cielo. Già da ora sono il nostro tesoro, il tesoro della Chiesa. Ci dischiudono infatti la ricchezza che non invecchia mai, quella che congiunge terra e Cielo e per la quale vale veramente la pena vivere: l’amore.

Ecco: “i poveri ci facilitano l’accesso al Cielo”. Come non notare che questa frase può essere pronunciata solo da chi fa parte dei ricchi, dei potenti, dei possidenti che vedono il mondo solo dal loro egocentrico punto di vista? Ieri come oggi.

Provate voi a essere poveri e diteci poi se vi soddisfa l’idea di essere al mondo solo perché altri si salvino!

Fonte delle citazioni: Ciconte, E., 2025, Classi pericolose. Una storia sociale della povertà dall’età moderna a oggi, Laterza, Roma-Bari, pp. 29-31; 33.

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Le illusioni dei media che ci aiutano a vivere

Sono stati i sociologi Donald Horton e Richard Wohl, nel 1956, a notare che una delle caratteristiche più rilevanti dei mass media (all’epoca il riferimento era a radio, televisione e cinema) è quella di dare allo spettatore l’illusione di vivere un rapporto faccia a faccia con i protagonisti del piccolo e grande schermo e con quelli della radio; una situazione che, per i due autori, presenta forti analogie con i rapporti sociali che avvengono all’interno dei cosiddetti gruppi primari (famiglia, amici ecc.). Horton e Wohl definiscono questo rapporto “interazione o relazione parasociale”.

Il fatto di essere esposti in maniera costante e continuativa a volti (spesso in primo piano), voci e corpi di attori, giornalisti e altre personalità che devono la loro fortuna ai mass media fa sì che negli spettatori e ascoltatori (ma Horton e Wohl si riferiscono soprattutto agli spettatori televisivi) si crei una sensazione di familiarità e intimità quasi reale, pur essendo totalmente fittizia.

Naturalmente, tuttavia, esiste una profonda differenza tra i rapporti sociali e quelli parasociali.

La differenza cruciale tra le due esperienze sta ovviamente nella mancanza di reciprocità reale, cosa che il pubblico non può normalmente nascondere a sé stesso. Certo, il pubblico è libero di scegliere tra le relazioni offerte, ma non può crearne di nuove. L’interazione, tipicamente, è unilaterale, non dialettica, controllata dall’attore e non suscettibile di sviluppo reciproco (Horton, Wohl, 1956, p. 215).

E ancora:

È una caratteristica invariabile di questi programmi basati sulle “personalità” che la persona si adoperi per creare un’illusione di intimità. La chiamiamo illusione perché la relazione tra la persona e qualsiasi membro del suo pubblico è inevitabilmente unilaterale e la reciprocità tra i due può essere solo allusa (Horton, Wohl, 1956, p. 217).

Horton e Wohl definiscono con il nome di personae (dal latino persona, ossia “maschera”) i personaggi televisivi coinvolti in questi rapporti parasociali.

Queste “personalità”, di solito, non primeggiano in nessun ambito sociale se non in quello dei media. Esistono per il loro pubblico solo nella relazione parasociale. In mancanza di un nome appropriato, li chiameremo personae (Horton, Wohl, 1956, p. 216).

La persona intrattiene un legame speciale con i suoi spettatori, che Horton e Wohl così definiscono:

I suoi fedeli “vivono con lui” e condividono i piccoli eventi della sua vita pubblica e, in una certa misura, anche della vita privata vissuta lontano dallo schermo. In effetti, la loro continua relazione si protrae nel tempo e l’accumulo di esperienze passate condivise conferisce ulteriore significato alla relazione. Questo legame è simboleggiato da allusioni che non hanno alcun senso agli occhi dell’osservatore occasionale e appaiono misteriose all’esterno. Col tempo, il fedele, il “fan”, arriva a credere di “conoscere” la persona in modo più intimo e profondo di altri; di “capire” il suo carattere e apprezzare i suoi valori e le sue motivazioni (Horton, Wohl, 1956, p. 216).

Le conseguenze di tale interazione sono descritte nel modo seguente:

La persona può essere considerata dal suo pubblico come un amico, un consigliere, un consolatore e un modello; ma, a differenza dei veri amici, ha la peculiare virtù di essere rinchiuso all’interno di una “formula” che ne standardizza il carattere e la condotta e che lui e i suoi manager hanno elaborato e incarnato in un appropriato “formato di produzione”. Così, il suo carattere e il suo modello di azione rimangono sostanzialmente invariati in un mondo di cambiamenti inquietanti. La persona è solitamente prevedibile e non riserva ai suoi seguaci sorprese spiacevoli. Il loro rapporto non dà luogo a problemi di comprensione o empatia così grandi da non essere rimediabili (Horton, Wohl, 1956, p. 217).

Il legame parasociale che si crea tra persona e spettatore crea profonde distorsioni conoscitive e interpretative nei fan. Ad esempio, il fan può essere convinto di conoscere ogni aspetto intimo e autentico del suo attore preferito al punto che, se la cronaca ne rivela un comportamento difforme dalle aspettative dell’ammiratore, questi può esserne colpito molto negativamente tanto da accusare il cronista di “inventare storie” perché il suo “eroe” non si comporterebbe mai così.

Il paradosso è che, sebbene il fan acquisisca le conoscenze sul suo beniamino dai film in cui questi recita, dalle interviste che concede o dalle “paparazzate” dei giornalisti, ossia da contesti in cui domina la finzione e l’esibizione di un sé falso da parte dell’attore, il suo ammiratore si dichiara certo di conoscerne il sé “autentico” e niente sembra in grado di persuaderlo del contrario.

Addirittura, in alcuni casi, il fan sfegatato crede di conoscere il suo eroe più e meglio dei suoi familiari, parenti, amici, nonostante non abbia mai avuto un rapporto reale con lui/lei. I baci e le lacrime dell’attore impegnato in un film, le interviste televisive in cui “mette a nudo il suo cuore”, i sorrisi così “sinceri” esibiti in mille occasioni sono finti, per definizione, ma conferiscono un’illusione di intimità che, talvolta, è preferibile all’assenza di intimità che si ha con le persone che appartengono alla cerchia dei propri amici, conoscenti, parenti.

Meglio allora una bellissima familiarità finta che una pessima intimità reale. Quando la vita reale è insopportabile, le illusioni aiutano a sopportarla, soprattutto quando sono garantite a buon mercato dai mass media.

Fonte

Donald Horton & R. Richard Wohl (1956) “Mass Communication and Para-Social Interaction”, Psychiatry, vol. 19, n. 3, pp. 215-229. PDF.

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Consigli per disinnescare il potere della preghiera

Come si vanifica, secondo il diavolo, l’efficacia della preghiera? Come si può rendere inutile questa pratica così diffusa tra i credenti di tutto il mondo, soprattutto per conseguire vantaggi, protezione o guarigione?

Lo spiega, nella sua prosa caratteristica, lo scrittore Clive Lewis nel quarto e nel ventisettesimo capitolo delle sue Lettere di Berlicche.

Il primo metodo, afferma il “diavolo istruttore” Berlicche, è quello di incoraggiare il “paziente” (per usare la terminologia di Lewis) a recitare la preghiera in maniera pappagallesca, ripetitiva, infantile. Così facendo, la preghiera non viene recitata con attenzione al significato delle parole, ma in maniera distratta e monotona.

Un altro metodo, opposto rispetto al primo, è quello di persuadere chi prega a recitare «qualcosa che sia del tutto spontaneo, interiore, non formalistico, non regolarizzato» (p. 17). In questo modo, il “paziente” si concentra interamente su ciò che sente interiormente, perdendo di vista il destinatario delle sue parole.

Un altro metodo ancora consiste nello spingere il credente a pregare in maniera ritualisticamente difforme dalla norma, assumendo una posizione del corpo diversa da quella confacente alla preghiera. Lewis, al riguardo, cita il poeta Coleridge, il quale scriveva che non pregava mai muovendo le labbra e piegando le ginocchia, ma semplicemente con uno “spirito composto nell’amore” e indulgendo a “un sentimento di supplica”. Per Berlicche, la posizione del corpo è importante perché gli uomini sono come animali e «qualunque cosa i loro corpi facciano incide sulle loro anime» (p. 18). Una posizione che ricorda molto quella di Blaise Pascal sulla preghiera.

Un altro metodo consiste nel dirottare l’intenzione delle orazioni dalla divinità al mondo interiore di chi prega: ad esempio, dalla richiesta di perdono al sentimento di essere perdonati. Attraverso questa conversione verso l’io è possibile enervare la preghiera della sua forza locutoria e, quindi, renderla inservibile.

Infine, si può ossessionare il credente

con il sospetto che la pratica è assurda e non può essere seguita da nessun risultato positivo. […]. Se ciò per cui prega non avviene si avrà una nuova prova che le preghiere di petizione non raggiungono lo scopo; se avviene sarà naturalmente capace di vedere alcune delle cause fisiche che hanno condotto a quell’effetto che “perciò sarebbe capitato in un modo o nell’altro”. In tal maniera una preghiera esaudita è una prova, buona come una preghiera non esaudita, che tutte le preghiere sono inefficaci (p. 110).

Uno scettico sposerebbe in pieno le osservazioni di Berlicche. Non le attribuirebbe, tuttavia, all’azione del diavolo, bensì a fattori epistemologici. Un epistemologo popperiano argomenterebbe, infatti, che le osservazioni di Lewis dimostrano che le credenze nella divinità sono semplicemente non falsificabili. Se una preghiera sortisce effetto, è perché Dio è intervenuto. Se non produce effetti è perché chi prega ha commesso un peccato, non ha pregato abbastanza o con la dovuta intensità, ha subito l’infausta ingerenza del diavolo e così via.

Non c’è modo di falsificare la credenza che le preghiere sono efficaci. È sempre possibile chiamare in causa fattori contingenti e intervenienti che ne “spiegano” l’inefficacia. Ma tutto questo non è un trucco del diavolo. È il modo in cui il sistema delle credenze religiose salvaguardia sé stesso. Preservando l’illusione che Dio risponda alle nostre preghiere.

Per chi volesse saperne di più sulla psicologia e la sociologia della preghiera, rimando al mio recente La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario.

Fonte:

Clive Staples Lewis, 1998, Le lettere di Berlicche, Mondadori, Milano.

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La sociologia del turpiloquio in Alessandro Manzoni

Che cos’era il turpiloquio al tempo dei Promessi sposi? Che idea aveva delle parolacce e delle bestemmie Manzoni? Un’idea possiamo farcela leggendo il seguente brano di Fermo e Lucia, in cui lo scrittore milanese presenta la personalità di Padre Cristoforo:

Era a quei tempi comunissima a tutte le classi di persone l’usanza d’infiorare il discorso di quelle parole delle quali quando si vogliono stampare non si pone che l’iniziale con alcuni puntini, di quelle parole che esprimono o ciò che vi ha di più sozzo o ciò che vi ha di più riverito, di quelle parole le quali quando scappano ad un signorino nella puerizia, fanno fare viso dell’arme alla mamma, e la fanno sclamare: «ohibò! dov’hai tu inteso questo: nella via o dai servitori certamente» (e l’avrà inteso dal signor padre) di quelle parole che non sono sconosciute nelle sale fastose, e che formano la terza parte dei colloqui del popolo, al quale dicono alcuni sapienti che converrebbe abbandonarle; ma questi sapienti non dicono bene, perché comunque gli uomini sieno classificati, non vi ha alcuna classe d’uomini alla quale convenga ciò che è turpe. Quest’uso era adunque comunissimo in allora, e chi ne vuol la prova dia una occhiata alle leggi che bestemmiavano pene atroci per impedir la bestemmia, guardi alla cura che i vescovi prendevano per togliere questa vergogna dal clero stesso. Il signor Ludovico aveva fatto un tale uso di queste frasi che la lingua del Padre Cristoforo durava fatica a rimandarle tutte le volte che si presentavano, cioè ad ogni primo impeto di passione di qualunque genere; ma il Padre Cristoforo faceva stare la sua lingua. Solamente in certi casi rari, nei quali la passione era tanto viva che quasi quasi Cristoforo tornava per un momento Ludovico, veniva ad un componimento. Si proferivano le parole, ma trasformate: ad alcune consonanti radicali n’erano sostituite altre che toglievano il senso ordinario alla parola, e lasciavano soltanto travedere una lontana intenzione, quasi un bisogno di proferirla. Così mutato, trasformato, temperato era l’animo, in modo però che riteneva alquanto dell’antica sua natura.

Il brano esprime una serie di considerazioni sociologiche sul turpiloquio.

Innanzitutto, il Manzoni conferma che, allora come oggi, parolacce e bestemmie erano comuni “a tutte le classi” sociali, quindi tanto al popolino quanto all’alta borghesia, e che l’idea che gli adolescenti borghesi apprendessero le “male parole” dal volgo – invece che dal “signor padre” – era del tutto errata. Non esistevano labbra pure per nascita. Il vezzo di imprecare non era appannaggio di nessuno in particolare. Tutti reclamavano questo privilegio.

In secondo luogo, proprio come fanno i sociologi oggi, Manzoni ricava l’idea della diffusione interclassista del turpiloquio dalla severità delle leggi che punivano questo comportamento e dall’attenzione che i vescovi dedicavano al fenomeno per ridurlo tra le file del clero. Tanta severità non sarebbe comprensibile se parolacce e bestemmie fossero state comportamenti marginali.

In terzo luogo, il turpiloquio è ricondotto alla urgente pressione di stati passionali che, talvolta, si imponevano anche a religiosi come Padre Cristoforo, il quale era costretto a “trasformare” le parole più atroci tramite meccanismi di alterazione eufemizzante che attenuavano l’impatto verbale, lasciando comunque intravedere il senso dell’espressione. Questi meccanismi sono, come è noto ai linguisti, alla base della creazione di tante parole e locuzioni “alternative” oggi molto comuni. Si pensi, per fare un solo esempio, a “mannaggia” che eufemizza la maledizione, rendendola più accettabile.

La pagina di Fermo e Lucia appena riportata fu completamente trasformata nei Promessi Sposi, perdendo molto della sua verve sociologica:

Il suo linguaggio era abitualmente umile e posato; ma, quando si trattasse di giustizia o di verità combattuta, l’uomo s’animava, a un tratto, dell’impeto antico, che, secondato e modificato da un’enfasi solenne, venutagli dall’uso del predicare, dava a quel linguaggio un carattere singolare. Tutto il suo contegno, come l’aspetto, annunziava una lunga guerra, tra un’indole focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa, sempre all’erta, e diretta da motivi e da ispirazioni superiori. Un suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, l’aveva una volta paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale, che alcuni, anche ben educati, pronunziano, quando la passione trabocca, smozzicate, con qualche lettera mutata; parole che, in quel travisamento, fanno però ricordare della loro energia primitiva.

Rimane, comunque, l’idea che il turpiloquio sia legato a una “energia primitiva” che preme per traboccare e che l’educazione chiede di tenere a freno per non apparire come membri non competenti della società.

Manzoni non sospettava neppure che, nella contemporaneità, il turpiloquio sarebbe stato percepito positivamente come indicatore di autenticità e credibilità, come è evidente in politica e nella televisione-realtà. Certo, sono trascorsi oltre 150 anni dalla morte dello scrittore, ma quante cose sono cambiate da allora!

Per chi volesse approfondire la sociologia del turpiloquio rimando al mio Turpia. Sociologia del turpiloquio e della bestemmia.

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È vero che gli atei si convertono in punto di morte?

In un mio post precedente, ho esaminato la cosiddetta “fallacia del capezzale” (Deathbed Fallacy), l’idea errata secondo cui ciò che si afferma, pensa, sente quando si è in punto di morte ha un valore generalmente superiore a ciò che si afferma, pensa, sente in altri momenti della vita, tanto da poter assurgere a regola etica assoluta che chiunque dovrebbe condividere se desidera vivere una vita migliore.

Concludevo, al termine della mia disanima, che le confessioni, i pentimenti e le conversioni in punto di morte, cui spesso tendiamo ad attribuire grande valore, non sono sempre da giudicare attendibili o, addirittura, come comprovanti la verità del credo in cui ci si converte, di ciò che viene confessato o di ciò di cui ci si pente e richiamavo l’inglese Robert Cooper, autore, a metà del XIX secolo, di un pamphlet intitolato Death-Bed Repentance; Its Fallacy and Absurdity when Applied as a Test of the Truth of Opinion; With Authentic Particulars of the Last Moments of Distinguished Free-Thinkers (1852) ossia Pentimento in punto di morte. Sua fallacia e assurdità quando utilizzato come prova della verità di una opinione. Con i resoconti autentici degli ultimi momenti di illustri liberi pensatori.

Ho tradotto il pamphlet di Cooper per la prima volta in italiano, almeno a mia conoscenza, e voglio offrirlo ai miei lettori nella convinzione che abbia ancora molto da dirci.

Non sappiamo molto di Robert Cooper. Sappiamo che fu il segretario di Robert Owen (1771-1858), uno dei più noti rappresentanti di quel movimento denominato “socialismo utopico” che, nell’Ottocento, diede vita a diversi esperimenti comunitari e cooperativi, come alternativa alle forme di organizzazione capitalistica che, già allora, stavano mutando radicalmente la società occidentale. Sappiamo anche che Cooper fu direttore del mensile a vocazione laica e materialista «The London Investigator» e che tenne apprezzate conferenze sui temi della Bibbia e l’immortalità dell’anima e sull’analisi delle Sacre Scritture. Morì il 3 maggio del 1868 (Foote, 1888).

Death-Bed Repentance ha una finalità polemica. Il suo obiettivo è smascherare le menzogne dei credenti sugli ultimi momenti di vita dei grandi liberi pensatori dell’umanità. Un diffuso luogo comune, propagato dagli stessi “pii devoti”, era – ed è ancora, per certi versi – che perfino gli atei più incalliti, in punto di morte, si ravvedono e si convertono; circostanza che dimostrerebbe la superiorità morale della religione sul libero pensiero: se, infatti, nel momento decisivo della loro esistenza, coloro che non credono rinnegano il proprio ateismo o agnosticismo, ciò vuol dire che la religione ha sempre l’ultima parola.

Cooper analizza, smontandolo, questo luogo comune in base agli argomenti sopra esposti a cui aggiunge una disamina, su base documentale, degli ultimi istanti di vita di alcuni importanti pensatori a cui la propaganda cristiana attribuisce una conversione sul letto di morte. I nomi citati sono rilevanti: Thomas Paine (1737–1809), Voltaire (1694–1778), David Hume (1711 –1776), Edward Gibbon (1737 –1794) e altri ancora. Nessuno di essi si convertì al momento del trapasso, ma su ognuno di essi la propaganda cristiana ha imbastito menzogne interessate – disinformazione pura e semplice – per accreditare le proprie credenze e per mostrare ai “sopravvissuti” che è necessario pentirsi delle proprie malefatte dal momento che la morte riguarda tutti e tutti dovranno rispondere nell’aldilà del proprio operato su questa Terra.

Snocciolando testi e testimonianze, Cooper mostra come, in realtà, nessuno dei grandi pensatori atei o agnostici a cui vengono attribuiti pentimenti in punto di morte ha mai cambiato idea in argomento. Il “teatrino del capezzale” messo su dalla Chiesa ha solo lo scopo di turbare le coscienze delle masse più sprovvedute e piegarle al proprio credo, sfruttando la paura della morte che affligge ogni essere umano per il fatto di essere tale.

Solo il socialismo, per Cooper, è in grado di garantire ai suoi discepoli il superamento dell’orrore della morte perché solo il socialista, da vero uomo illuminato, alieno da ogni superstizione e irrazionalità, è consapevole che la morte rappresenta una fase necessaria e ineludibile dell’esistenza umana, il destino inevitabile dell’umanità.

Citando Shelley, Cooper è convinto che “la morte non è nemica della virtù”. Il socialista è un individuo virtuoso «il cui unico desiderio è quello di eliminare i mali e le miserie» del mondo. Il socialista sa che le piaghe che affliggono l’umanità non sono inevitabili, non esistono per decreto divino, ma hanno come origine fatti umani e sociali che possono essere rimossi come ogni prodotto concepito dall’uomo.

Cooper avrebbe, forse, potuto citare Epicuro: «Il male, dunque, che più ci spaventa, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi lei non c’è, e quando lei c’è noi non ci siamo più». Ma il rapporto vita-morte, per il giornalista inglese, non è solo di mutua esclusione: il socialista ha la consapevolezza che sono i meriti ottenuti in vita a dare senso alla morte, è la virtù conquistata quando si respira e si lotta a conferire significato all’esistenza, per quanto effimera e costantemente minacciata dalla morte essa sia.

E se pure esistesse un paradiso, conclude Cooper, il socialista, al pari di tutti coloro che stimano la verità e che si adoperano per migliorare il mondo in cui vivono, avrebbe tutto il diritto di esservi e di godere delle sue delizie. Ritengo che, se sostituissimo a “socialista” un qualsiasi termine che significhi rettitudine morale e virtù sociale, potremmo continuare a condividere le considerazioni del direttore del «London Investigator».

Lo stesso Cooper fu sempre un coerente e convinto materialista e non ritornò mai sui propri passi. Anzi. Il «National Reformer» del 26 luglio 1868 contiene le seguenti parole da lui scritte proco prima di morire:

In un momento in cui la mano della morte è sospesa su di me, le mie opinioni teologiche rimangono immutate; mesi di profonda e silenziosa riflessione, nonostante la pressione di una lunga sofferenza, le hanno confermate piuttosto che modificate. Attendo con calma, quindi, ogni possibile pericolo associato a queste convinzioni. Consapevole che, se pure fossi in errore, avrei comunque la sincerità dalla mia parte, non temo alcuno danno derivante da percezioni a cui mi è impossibile resistere.

Fedele fino alla fine all’esempio dei grandi uomini citati nel suo pamphlet, Cooper affidò il proprio credo alla sua opera e alle sue parole. Ci lascia un insegnamento destinato a scontrarsi con il luogo comune popolare, ma denso di scomoda verità:

Dovremmo considerare le opinioni di un uomo quando questi è convalescente, non quando è malato. Dovremmo chiederci cosa ha detto, non in punto di morte, ma quando era veramente sé stesso, e le sue azioni erano caratterizzate da vigore ed energia.

Qui il testo integrale del pamphlet di Cooper con una mia introduzione.

Buona lettura!

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