“Ti amerò per sempre. Il mio amore per te non cambierà mai”

Vi è mai capitato di pronunciare questa frase? Se siete come la maggior parte delle persone, probabilmente sì. Arriva un momento della nostra vita in cui ci convinciamo che i nostri sentimenti nei confronti di una persona rimarranno gli stessi all’infinito. Soprattutto l’amore, sostantivo a cui ci piace associare l’aggettivo “eterno”. Non a caso una frase come “Ti amerò per sempre” è diventata il claim di tanti film e serie TV in cui i protagonisti si scambiano rassicuranti attestazioni sulle proprie emozioni.

Questa convinzione è talmente robusta che non abbiamo problemi a dichiarare all’altro/a ciò che proviamo, magari aggiungendo: «Voglio invecchiare con te». È diventato, anzi, un luogo comune credere che il vero amore sia imperituro e che, se amiamo davvero una persona, il nostro sentimento rimarrà costante in ogni fase della nostra vita, dalla giovinezza alla maturità alla vecchiaia. Salvo poi ricrederci e renderci conto che, con l’andare del tempo, i sentimenti si trasformano e diventano altro. Non mutano necessariamente nel contrario, ma mutano. Come i nostri gusti alimentari, le nostre preferenze in fatto di musica, vestiti, lavoro, amici, tatuaggi.

E allora perché, nonostante la prova del tempo e dei fatti, ci ostiniamo a dire che il nostro amore è destinato all’eternità? Oppure, per scendere a un livello più prosaico, perché siamo certi che quella pietanza è e sarà per sempre la nostra preferita, che quella band ci farà provare sempre le stesse emozioni, che ameremo sempre quel lavoro, frequenteremo sempre quell’amico/a e voteremo sempre per quel partito? C’è forse qualcosa nella nostra mente che ci fa dire che il verde sarà per l’eternità il nostro colore preferito, che Enrico sarà il nostro best friend for ever, che i Beatles sono il nostro gruppo musicale prediletto, che quella rosa tatuata ci rappresenterà fino alla morte e che, naturalmente, Valeria sarà la donna della nostra vita, anche se poi cambieremo idea?

Sembra proprio di sì, stando a quello che affermano gli psicologi Jordi Quoidbach, Daniel T. Gilbert, Timothy D. Wilson (2013), autori di uno studio che battezza un nuovo fenomeno della psiche: The End of History Illusion ovvero “l’illusione della fine della storia”.

Che cos’è l’illusione della fine della storia? È la propensione illusoria, comune a individui di tutte le età, a credere che la propria personalità, i propri valori e le proprie preferenze rimarranno stabili e uguali a quelli attuali per sempre, sebbene in alcuni casi in passato siano cambiati in modo notevole. In altre parole, se interrogati al riguardo, le persone riconoscono di aver sperimentato importanti cambiamenti nel passato, ma prevedono che non ne sperimenteranno nel futuro, ovvero che i propri valori, tratti di personalità e gusti rimarranno più o meno stabili.

In uno studio che ha coinvolto complessivamente 19.000 persone, di età compresa tra i 18 e i 64 anni, Quoidbach, Gilbert e Wilson chiesero a un campione di soggetti di prevedere quanto sarebbero cambiati nei successivi dieci anni relativamente ad alcuni tratti di personalità, ad alcuni valori fondamentali e ad alcune preferenze (gusti e antipatie), e contestualmente a un campione simile di individui di riferire quanto erano cambiati nei dieci anni precedenti relativamente alle stesse variabili. Confrontando le previsioni delle persone di età pari a X anni con i resoconti delle persone di età pari a X +10 anni, gli sperimentatori si aspettavano che le prime prevedessero meno cambiamenti nei successivi dieci anni rispetto a quelli segnalati dalle seconde nei dieci anni precedenti. E, in effetti, è esattamente quello che accadde. Lo studio dimostrò che

le persone si aspettano di sperimentare meno cambiamenti nella loro personalità e nei loro valori fondamentali nel prossimo decennio rispetto a quelli che le persone di dieci anni più grandi dichiarano di aver sperimentato nel decennio precedente (Quoidbach, Gilbert, Wilson, 2013, p. 98).

In sostanza, le persone credono che ciò che sono oggi sia più o meno ciò che saranno domani, anche se non corrisponde a ciò che erano ieri. Detto altrimenti, si aspettano di cambiare poco nel futuro, nonostante sappiano di essere cambiate molto in passato.

Secondo i ricercatori, il fenomeno può verificarsi a causa di una resistenza al cambiamento o un timore dello stesso. Oppure perché si è soddisfatti dello stato attuale della propria vita e non si desidera che esso cambi. Oppure, dal momento che rievocare il passato è più facile che prevedere un cambiamento futuro, le persone preferiscono l’idea che il cambiamento sia improbabile alla difficile alternativa di immaginare un profondo cambiamento personale.

Gilbert collega il fenomeno anche al modo in cui gli esseri umani percepiscono il tempo in generale. Il tempo è una forza molto potente. Muta profondamente i nostri gusti, ridefinisce i nostri valori, modifica la nostra personalità. Il guaio è che capiamo questo solo con il senno di poi, quando guardiamo le cose del passato. Gli esseri umani sono opere in fieri che credono erroneamente di essere terminate. In ogni momento, le persone credono di essere “prodotti finiti” quando, invece, cambieranno costantemente nel corso della vita.

È per questo motivo che da giovani prendiamo decisioni in cui crediamo e di cui siamo convinti con tutto noi stessi, salvo poi rimpiangere da adulti di non aver deciso altrimenti. Un esempio classico è rappresentato dai tatuaggi. Da giovani, siamo convinti che quel tatuaggio che tanto amiamo ci accompagnerà per sempre, che ci rappresenterà per sempre, che sarà sempre parte di noi. Poi, da adulti, ci affrettiamo a cancellarlo perché non ci rappresenta più, ci è diventato estraneo e, anzi, ci meravigliamo della nostra scelta precedente. Abbiamo sottovalutato la nostra capacità di cambiare in futuro. Un altro esempio è dato dalla forza delle idee. Da giovani possiamo innamorarci profondamente di un’idea e pensare che vi dedicheremo la vita, salvo poi, con il tempo, renderci conto che non la pensiamo più allo stesso modo, che siamo cambiati divenendo altro da ciò che credevamo di essere. Alcuni sperimentano questa condizione come un tradimento del proprio sé autentico. In realtà, si tratta solo di un fisiologico mutamento di idee che, in gioventù, non siamo in grado di prevedere.

Questa incapacità sistematica di prevedere quanto cambieremo nel futuro, quanto cambierà la nostra personalità, quanto cambieranno i nostri valori e i nostri gusti, questa avversione a comprendere che la storia non finisce con il presente, che, se siamo cambiati fino a ora, ciò accadrà anche in futuro, ha delle profonde ricadute non solo in ambito individuale, ma pure sociale.

Quoidbach, Gilbert e Wilson battezzarono la loro “creatura” “illusione della fine della storia”, traendo spunto dalla celebre tesi del politologo Francis Fukuyama, elaborata nel 1992, all’indomani della caduta del muro di Berlino e del tramonto dei regimi comunisti, secondo cui, alla fine del XX secolo, l’umanità aveva ormai raggiunto l’apice della sua evoluzione sociale, economica e politica, rappresentata dal trionfo del capitalismo e del liberalismo democratico, e che non vi sarebbero stati più mutamenti nella storia.

La tesi di Fukuyama ricorda, per certi versi, quella di un autore molto diverso da lui come Oswald Spengler (1880-1936), convinto che, nel XIX secolo, l’Occidente fosse entrato in una fase di decadenza e si sarebbe presto estinto. Sebbene le loro conclusioni siano molto distanti l’una dall’altra, l’idea di fondo è che, a un certo punto, la storia dell’umanità cessa di evolvere, arrestandosi al presente. Un’illusione smentita dal fatto che sia nel XX sia nel XXI secolo, la storia ha continuato a mutare secondo linee di evoluzione non previste dai due autori.

Ritroviamo l’illusione della fine della storia anche in un giornalista come Luigi Barzini (1908-1984), autore, nel 1964, di un celebre libro sugli italiani. In esso, Barzini formulò la seguente profezia: «Il divorzio comincia ad essere adottato [in Italia] come una consuetudine dalla classe superiore. Naturalmente la legge ancora non lo contempla e non lo contemplerà mai. Non vi si oppone soltanto la Chiesa, ma la popolazione stessa lo considera giustamente un’istituzione barbara e rovinosa; la necessità di conservare qualche solido baluardo contro l’instabilità delle cose ne impedirà sempre l’adozione» (Barzini, 2001, p. 279).

Barzini credeva che vi fosse qualcosa nel carattere degli italiani che avrebbe per sempre reso impossibile l’approvazione di una legge sul divorzio. Si sbagliava, vittima della End of history Illusion. La legge sul divorzio sarà approvata in Italia nel 1970, appena sei anni dopo la pubblicazione del suo libro.

È possibile vedere all’opera l’illusione individuata da Quoidbach, Gilbert e Wilson ogni volta che una nuova invenzione viene scoperta. Quando ciò avviene, ci sono sempre dei detrattori pronti a scommettere che non durerà: questo è accaduto per i treni, le automobili, gli aerei, i computer. Ad esempio, l’invenzione della lampadina da parte di Thomas Edison (1847-1931) venne accolta con estremo scetticismo da altri scienziati come Henry Morton (1836-1902) dello Stevens Institute of Technology, sicuro che sarebbe stata un “fallimento certo”. Quando fu inventato il televisore, il produttore cinematografico Darryl Zanuck (1902-1979) dichiarò con piena convinzione, nel 1946, che le persone si sarebbero presto stufate di fissare ogni sera una scatola di compensato. Nel 1899, la rivista Literary Digest espresse scetticismo riguardo il fatto che l’automobile avrebbe soppiantato la bicicletta come mezzo di trasporto. Opinione sottoscritta, tre anni dopo, dal New York Times che definì le auto “poco pratiche”. Infine, nel 1977, Ken Olsen (1926-2011), fondatore della società di informatica Digital, affermò: «Non c’è nessun motivo perché qualcuno voglia avere un computer a casa», opinione destinata a essere clamorosamente smentita qualche decennio dopo.

I protagonisti di queste vicende sottovalutarono sistematicamente i cambiamenti che sarebbero intervenuti dopo l’introduzione della nuova scoperta e si dimostrarono incapaci di predire quanto il mondo sarebbe cambiato. La storia, per essi, si arrestava al presente.

L’illusione della fine della storia può essere utilizzata anche a fini pratici, se non pedagogici. Essa ci insegna che non dovremmo prendere le nostre decisioni esclusivamente sulla base dei nostri sentimenti attuali (“Sento che andrà tutto bene”) o del presupposto che le nostre preferenze del momento non cambieranno nel futuro. Ad esempio, intraprendere una carriera o un matrimonio senza riflettere sulla loro durabilità può avere conseguenze negative nel futuro.

È per questo, fra l’altro, che sorgono conflitti tra genitori e figli. I secondi tendono a prendere le loro decisioni sulla base delle idee o aspirazioni del momento, senza prendere in considerazione altri fattori la cui importanza si paleserà nel futuro e che saranno decisivi nella vita adulta. Ambiranno, ad esempio, a diventare grandi scienziati/scrittori/registi facendo leva su desideri ottimistici tipicamente giovanili. I primi chiameranno in causa elementi realistici che possono condizionare le scelte future dei secondi e con cui è necessario fare i conti, ma che sono sottovalutati dai figli. Ne può scaturire uno scontro di vedute che, in alcuni casi, può essere molto conflittuale. Il fatto è che i genitori “sanno” che cosa significa essere adulti; i figli immaginano di essere giovani in eterno, prede dell’illusione della fine della storia.

Questo significa che dovremmo sempre mettere in discussione le nostre scelte perché in futuro potrebbero cambiare? Se così fosse, saremmo condannati a una eterna paralisi. Banalmente, non potremmo più decidere perché ogni decisione correrebbe il rischio di essere revocata. L’illusione della fine della storia, però, non ci insegna questo. Ci mette semplicemente in guardia dal ritenere che tutto ciò che siamo adesso non potrebbe cambiare in futuro. Se vogliamo, ciò comporta una conseguenza ancora più inquietante, ma con cui la filosofia ci ha già costretto a fare i conti: il nostro sé non è fisso e stabile, ma cambia in continuazione. L’io del futuro potrebbe non essere in grado di riconoscere l’io del passato e viceversa (se ciò fosse possibile).

Se e cose stanno così, che ne facciamo dell’amore? Dovremmo smettere di amare nel presente perché l’io del futuro potrebbe non amare più o amare qualcun altro? Forse, una soluzione c’è e consiste nel venire a patti con una verità scomoda e tremenda, riassumibile nel titolo di un film di Carlo Verdone del 2004: l’amore è eterno finché dura. Poi chissà.

Riferimenti

Barzini, L., 2001, Gli italiani. Virtù e vizi di un popolo, BUR, Milano.

Fukuyama, F., 2023, La fine della storia e l’ultimo uomo, UTET, Torino.

Quoidbach, J., Gilbert, D. T, Wilson, T. D., 2013, “The End of History Illusion”, Science, vol. 339, pp. 96–98.

Spengler, O., 2008, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano.

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Turpiloquio e bestemmie in Ignazio Silone

Traggo spunto da due frasi in cui mi sono imbattuto durante la lettura di Fontamara (1933) di Ignazio Silone, capolavoro per molto tempo misconosciuto della letteratura italiana, per alcune riflessioni su turpiloquio e bestemmia.

La prima è questa:

«Io so bene che il nome cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna sia della città, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore» (Silone, I., 2016, Fontamara, Mondadori, Milano, p. 5).

Può accadere che un termine adoperato per offendere e dileggiare si trasformi in altro e, anzi, acquisti una sua onorabilità? L’ambizione di Silone è che un termine come “cafone”, ancora oggi adoperato come “titolo ingiurioso per significare persona rozza, grossolana, maleducata”, ma il cui primo significato è quello di “contadino” (Treccani), diventi un nome di rispetto. Ciò può verificarsi, afferma lo scrittore abruzzese, solo quando si riconoscerà il valore del lavoro del contadino. In effetti, la connotazione negativa di alcune parole è strettamente associata al valore che riconosciamo al ruolo sociale di cui quelle parole sono etichette. Per tanto tempo, il lavoro del contadino è stato giudicato degradante, inferiore, umiliante. E ciò ha comportato una squalifica sociale dei termini che lo designano, come “agreste” e “rustico”. Ma si pensi anche a “bifolco”, “burino”, “pacchiano”, “villano”, “zappaterra”.

Oggi, le cose sono un po’ diverse. La rivalutazione del “verde”, della “natura”, della “campagna” in contrapposizione all’alienante condizione urbana ha permesso, in parte, di rivalutare il lavoro nei campi, tanto che termini come “agricoltore” o, ancora di più, “imprenditore agricolo” sono oggi considerati con rispetto, soprattutto se poi l’imprenditore agricolo è laureato e non più analfabeta.

Nonostante ciò, “cafone” continua ad avere una connotazione negativa, che si è però trasferita quasi del tutto dalla condizione contadina a ogni forma di comportamento incivile e rozzo, che può appartenere anche a chi contadino non è. In altre parole, “cafone” si è emancipato dalla sua accezione principale per designare una condotta socialmente riprovevole, chiunque la metta in atto.

La seconda frase tratta da Fontamara è:

I Fontamaresi «invece di cantare, volentieri bestemmiano. Per esprimere una grande emozione, la gioia, l’ira, e perfino la devozione religiosa, bestemmiano, ma neppure nel bestemmiare portano molta fantasia e se la prendono sempre contro due o tre santi di coloro conoscenza, li mannaggiano sempre con le stesse rozze parolacce» (Silone, I., 2016, Fontamara, Mondadori, Milano, p. 9).

La bestemmia qui assume una funzione di surrogato espressivo in persone che non sono in grado di dare altra forma ai propri stati d’animo. Secondo una vecchia teoria, turpiloquio e bestemmie suppliscono a importanti carenze verbali in coloro che, non essendo sufficientemente scolarizzati, non posseggono altre risorse per esprimere le proprie emozioni o per indicare gli oggetti che li circondano. Se ci pensiamo, è quello che accade a chiunque quando non trova le parole necessarie per significare qualcosa: “Passami quel c* di coso!”.

A Fontamara, i cafoni locali, poco istruiti, non hanno altro mezzo che “mannaggiare” per riferire le proprie emozioni, il che, fra l’altro, ci fa capire come turpiloquio e bestemmie, in alcuni contesti, assumano una importanza vitale a scopo comunicativo. Se mancassero, alcune persone sarebbero semplicemente condannate a una sorta di afasia esistenziale. Un fatto di cui i moralisti dovrebbero tenere conto prima di condannare, senza diritto di replica, parolacce e imprecazioni.

D’altro lato, parolacce e imprecazioni possono essere assunte come indicatori di disagio sociale e quindi divenire strumenti di accesso a realtà nei confronti delle quali, superficialmente, saremmo tentati di esprimere solo condanne morali. Il ricorso frequente a turpiloquio e bestemmie può divenire un modo per significare malessere: un sintomo, per così dire, di una realtà più profonda che sarebbe troppo semplice disapprovare.

Questo, Silone lo sapeva benissimo. Dovremmo impararlo anche noi.

Per altre riflessioni sociologiche su turpiloquio e bestemmie, rimando al mio Turpia. Sociologia del turpiloquio e della bestemmia.

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Un antropologo parla di Halloween

Si imparano molte cose dalla lettura di questo piccolo classico finora mai tradotto di Ralph Linton (1893-1953), pubblicato nel 1951 da Scientific American e laconicamente intitolato “Halloween” (vol. 185, n. 4, pp. 62-67).

Ralph Linton, uno dei più celebri antropologi americani, di cui sono state tradotte diverse opere in Italia, ha dedicato ad Halloween anche un intero libro, intitolato Halloween: Through Twenty Centuries (1950) e rappresenta ancora oggi una delle voci più serie e avvertite sulle origini di questa festa.

Leggendo Halloween, qui nella mia traduzione, impariamo che non è vero che Halloween è banalmente una “americanata”; che non è una festa pagana o neopagana venuta a usurpare le tradizioni cattoliche; che ha anzi forti affinità con le feste religiose cattoliche; che sono state queste, semmai, a fagocitare vecchie tradizioni pagane, sovrapponendosi a esse e trasformandole in altro; che le contaminazioni tra cristianesimo e paganesimo sono al cuore di questa come di altre feste che oggi percepiamo come unicamente cristiane.

Linton al riguardo è molto esplicito: «Tutte le feste del calendario cristiano hanno le loro radici nel remoto paganesimo». Spazziamo via, dunque, l’illusione che le celebrazioni a cui annualmente la Chiesa cattolica ci invita a partecipare posseggano una pristina purezza cristiana che si contrappone a una altrettanto pristina purezza pagana. Come sempre nella storia, i fenomeni sociali e religiosi sono molto più complessi di quanto piace raccontare. Solo che ai credenti più devoti dà forse fastidio ricordare che la tradizione che venerano può avere natali non proprio genuini. Di qui sforzi di ogni tipo per cancellare le macchie che infangano la narrazione tramandata, anche a rischio di falsificare platealmente la realtà. Questo è vero, ad esempio, nel caso del Natale (che tributa un profondo ringraziamento ai Saturnalia romani) e della Pasqua (che deve, invece, ringraziare Eostre, divinità germanica il cui nome è associato al rinnovarsi del ciclo della vita).

Quando si vuole diffamare una ricorrenza, infatti, il miglior modo per farlo è esibirne gli stracci sporchi della contaminazione per denunciarne le ascendenze pagane, se non addirittura diaboliche. È vero che Halloween scaturisce, secondo un’ipotesi accreditata, direttamente da riti druidici risalenti alla festività di Samhain, il Signore dei morti, i quali traevano forse afflato da alcune religioni misteriche greche. I druidi credevano che in quella occasione gli spiriti tornassero sulla terra a fare danni, ragione per cui era necessario indossare costumi e maschere per spaventarli. È anche vero, però, che alla festa celtica fu scientificamente sovrapposta la festa di Ognissanti e che i sacrifici pagani divennero presto sacrifici cristiani, come rivela scopertamente la lettera di papa Gregorio Magno (504-640) citata dalla Storia ecclesiastica degli Angli di Beda il venerabile (672-673 circa – 735) e ricordata da Linton. Toccherà poi a un altro papa, Gregorio III (690-741), spostare la celebrazione cattolica di Ognissanti dal 13 maggio al primo novembre allo scopo di spodestare (ed esorcizzare) la tradizione pagana di Samhain.

È, dunque, falsa l’idea che Halloween abbia origine negli States, come vuole un luogo comune duro a morire secondo il quale tutto ciò che è bizzarro e stravagante deve avere la propria scaturigine nel paese rappresentato dalla bandiera a stelle e strisce. Appare oggi assodato che la festa del treat or trick è emigrata oltreoceano con gli irlandesi che, a metà del XIX secolo, fuggirono il suolo natio a causa della terribile carestia di patate che li affamò, costringendoli a cercare fortuna altrove. Naturalmente, presso i discendenti degli antichi celti, Halloween non aveva ancora i caratteri che conosciamo oggi. Ma molti tratti – gli spiriti dei morti, i cortei che elemosinavano cibo, l’atmosfera scherzosa – erano già presenti nei rituali irlandesi e, in seguito, come accade di norma a ogni elemento culturale, subirono evoluzioni e “rivisitazioni” in chiave soprattutto consumistica fino a giungere alla codificazione attuale in cui l’aspetto commerciale è talmente preminente da soffocare ogni altro. Si può dire che anche Halloween, così come altre festività a sfondo religioso, si è secolarizzata. Anzi, in questo caso, il cerimoniale del consumo è diventato talmente centrale da elidere completamente ogni aspetto spirituale, relegato su un improbabile sfondo del passato che nessuno praticamente conosce più.

Ritornando alla storia della festività, non manca chi, come l’antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani, sostiene che Halloween sarebbe addirittura una festa italiana derivante dalla tradizione del “Coccalu di muortu” (“teschio di morto”) di Serra San Bruno, in Calabria (Lombardi Satriani, Meligrana, 1982) ed esportata successivamente in America dai tanti emigrati italiani meridionali.

Sia come sia, un ruolo preponderante nella secolarizzazione di Halloween, l’hanno avuto ovviamente il cinema, la televisione, la musica, i videogiochi, i libri e le storie in salsa orrifica che hanno contribuito a plasmare un intero immaginario oltretombale che si è espanso fino quasi a scalzare, nelle nuove generazioni, le festività limitrofe di Ognissanti e del Giorno dei Morti.

È questo forse il motivo per cui la Chiesa – o almeno alcuni suoi rappresentanti – condanna la festa di Halloween, accusandola di diffondere uno spirito anticristiano, pagano, diseducativo, estraneo alle nostre tradizioni, votato esclusivamente al consumo (Le Guay, 2004). Niente di tutto ciò corrisponde al vero, ma l’insistenza pervicace con cui le autorità cattoliche battono sull’argomento indica chiaramente come Halloween venga visto come una pericolosa minaccia in grado di sovrastare tradizioni cristiane vecchie di secoli. In realtà, maschere, offerte di cibo, questua, rapporti con i morti sono tutti elementi presenti anche in alcune festività religiose di cui, però, si preferisce vantare le origini autenticamente cristiane rispetto ai riti paganeggianti di Halloween. Quanto all’aspetto consumistico, questo è certamente presente come è presente, del resto, anche nel Natale e nella Pasqua con cui, peraltro, appare in perfetta sintonia.

Dal versante laico, invece, erano diffuse fino a qualche tempo fa le accuse secondo cui Halloween sarebbe una forma di colonizzazione dell’immaginario italiano da parte di quello americano e, dunque, uno snaturamento, se non una evirazione, dei caratteri nazionali e culturali del nostro paese. Nel corso del tempo, questa accusa è andata progressivamente affievolendosi, segno, forse, direbbe un sociologo cinico, che lo sforzo di colonizzazione ha raggiunto il suo obiettivo e che le nuove generazioni hanno pienamente interiorizzato il verbo del “dolcetto o scherzetto”. D’altronde, potrebbe banalmente essere accaduto che a trionfare non sia stato solo lo spirito di Halloween, ma quello del consumismo tout court, che contraddistingue ormai quasi tutte le nostre scelte di vita, dal divertimento al turismo, dagli abiti al cibo. L’importante, come è noto, è consumare e non importa se il gesto di consumo riguarda una festività religiosa o la scelta del poke bowl a pranzo o della prossima meta di viaggio. “Consumare” Halloween sarebbe, dunque, l’ennesima prova del trionfo di un intero sistema di valori a cui siamo ormai avvezzi e che non sorprende più nessuno, nemmeno i moralisti più apocalittici.

In tutto il mondo occidentale, le spese per Halloween sono aumentate a dismisura negli ultimi anni. Partecipare ad Halloween è diventato un dovere sociale soprattutto per le nuove generazioni, che non possono permettersi di ignorarne il richiamo, pena la squalifica sociale da parte del gruppo dei pari. Si moltiplicano, dunque, feste, maschere, costumi, travestimenti, accessori vari, sangue finto, posticce membra dilaniate e chi più ne ha più ne metta. E i protagonisti non sono solo gli adolescenti, ma anche gli adulti. Per non parlare dei tanti eventi a tema dedicati alla festa. Basti ricordare la Village Halloween Parade al Greenwich Village inaugurata a New York nel 1973.

 Un tempo, in Italia, ci si poteva permettere di guardare con sufficienza e un po’ di tristezza i gruppi di bambini che bussavano alle porte elemosinando dolci di ogni tipo. Oggi, non è più possibile. Certo, nessuno crede più a significati religiosi o magici – anche se le autorità cattoliche sono convinte del fatto che, il 31 ottobre, frotte di satanisti si riuniscano in tutto il mondo per parodiare e dissacrare i valori cristiani – ma il richiamo del consumo è fortissimo e sfuggirvi richiede davvero un grande sforzo.

Ora, non mentite. Lo so che anche per voi il 31 ottobre non è solo la vigilia di Ognissanti, ma un’occasione di festa e bagordi. Con qualche brivido che corre lungo la schiena, forse. Ma a buon mercato. Sì. A buon mercato.

Riferimenti bibliografici

Baldini, E., Bellosi, G., 2006, Halloween. Nei giorni che i morti ritornano, Einaudi, Torino.

Belk, R. W., 1990, “Halloween: An Evolving American Consumption Ritual”, Advances in Consume Research, vol. 16, pp. 508-517.

Best, J., Horiuchi, G. T., 1985, “The Razor Blade in the Apple: The Social Construction of Urban Legends”, Social Problems, vol. 32, n. 5, pp. 488–499.

Bonato, L., Zola, L., 2020, Halloween. La festa delle zucche vuote, Franco Angeli Editore, Milano.

Clark, C. D., 2005, “Tricks of Festival: Children, Enculturation, and American Halloween”, Ethos, vol. 33, n. 2, pp. 180–205.

Dalthorp, C. J., 1937, “Laying the Ghost of Hallowe’en”, The Journal of Education, vol. 120, n. 1, pp. 18–19.

Gulisano, P., O’Neill, B., 2006, La notte delle zucche. Halloween, storia di una festa, Ancora, Milano.

Kugelmass, J., 1991, “Wishes Come True: Designing the Greenwich Village Halloween Parade”, The Journal of American Folklore, vol. 104, n. 414, pp. 443–465.

Le Guay, D., 2004, La faccia nascosta di Halloween, Elledici, Torino.

Linton, R., 1951, “HALLOWEEN”, Scientific American, vol. 185, n. 4, pp. 62–67.

Linton, R., Linton, A., 1950, Halloween through Twenty Centuries, Schuman, New York.

Lombardi Satriani, L. M., Meligrana, M., 1982, Il ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud, Rizzoli, Milano.

Markale, J., 2005, Halloween: storia e tradizioni, L’Età dell’Acquario, Torino.

O’Donoho, D., 1834, “The Irish Peasants: Halloween”, The Dublin Penny Journal, vol. 3, n. 121, pp. 129–131

Rogers, N., 1996, “Halloween in Urban North America: Liminality and Hyperreality”, Histoire Social, vol. 58, pp. 461-477.

Rogers, N., 2002, Halloween: From Pagan Ritual to Party Night, Oxford University Press, Oxford.

Santino, J. 1983, “Halloween in America: Contemporary Customs and Performances”, Western Folklore, vol. 42, n. 1, pp. 1–20.

Schmidt, L. E., 1991, “The Commercialization of the Calendar: American Holidays and the Culture of Consumption, 1870–1930”, The Journal of American History, vol. 78, n. 3, pp. 887–916.

 

 

 

 

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“Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”

È considerata l’espressione più alta dell’etica, la summa di ogni possibile morale sociale, la quintessenza del retto agire, la forma più alta di reciprocità. L’hanno celebrata filosofi come Thomas Hobbes (1588-1679), John Locke (1632-1704), Immanuel Kant (1724-1804), John Stuart Mill (1806-1873), Hans Küng (1928-2021).

Le religioni, a dispetto di ogni differenza, concordano unanimemente sul suo valore. La “Regola aurea” (Golden Rule, come la chiamano gli anglofoni) è presente nella Grecia antica, nella Roma antica, nel confucianesimo, nell’ebraismo, nel buddismo e nell’Islam.

E, naturalmente, nel cristianesimo. Lo ricordano gli evangelisti Luca e Matteo. Nel vangelo di quest’ultimo si legge chiaramente:

Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti (Matteo 7, 12).

«Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?». Gli rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Matteo 22, 36-40).

E Luca ribadisce:

Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro (Luca 6, 31).

Si prova un enorme timore riverenziale al cospetto di un fronte morale così compatto. Se tanti pensatori e leader religiosi la elogiano, come potremmo mettere in dubbio il valore etico della “Regola aurea”? “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te” ha anche una versione negativa: “Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te”, forse anche più citata della prima. Insieme, costituiscono massime divenute principi etici fondamentali anche per il senso comune, per il quale sono regole inscalfibili, solide e prive di punti deboli. Del resto, le citano decisori politici e mass media, libri di testo scolastici e persone comuni. Al limite, da un punto di vista morale, possono forse esigere troppo dagli esseri umani. Fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi non è affatto facile. E se pure ci riuscissimo una volta, non vuol dire che ci riusciremmo sempre. In questo senso, l’aspirazione etica della massima è forse inferiore solo all’altro invito cristiano: «Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra» (Matteo 5, 39).

In realtà, se il consenso generale vuole che, come sintetizza il filosofo Hans Küng, la Regola aurea «dovrebbe essere la norma irrevocabile e incondizionata per tutti gli ambiti della vita, per le famiglie e le comunità, per le razze, le nazioni e le religioni» (Küng, Kuschel, 1993), un esame critico del suo contenuto rivela non poche crepe. Anzi, un metaforico tsunami che riduce notevolmente, a mio avviso, il suo potenziale morale.

L’obiezione più comune è riassumibile nella seguente frase del celebre drammaturgo inglese George Bernard Shaw (1856-1950), il quale, in Man and superman, avverte: «Non fare agli altri ciò che vorresti che facessero a te. I loro gusti potrebbero non essere gli stessi» (Shaw, 1903, p. 226), spingendosi fino al punto di proclamare che «The Golden Rule is that there is no golden rule» (“La Regola aurea è che non esiste alcuna regola aurea”).

Perché Shaw è così critico nei confronti del precetto: “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”? Perché esso può funzionare solo se c’è condivisione di valori, gusti e preferenze. Facciamo qualche esempio.

Ammettiamo che A sia omosessuale e che faccia delle avances piuttosto esplicite a B, che però è eterosessuale. A si comporta nei confronti di B come vorrebbe che B si comportasse nei suoi confronti, ma B non condivide l’orientamento sessuale di A e si sente infastidito dalle sue avances. Assistiamo in questo caso a un cortocircuito etico che pone in serio imbarazzo la pretesa morale universale della Regola aurea.

Lo stesso accadrebbe se A fosse un anarchico, negatore della proprietà privata, e sottraesse a B la sua automobile in nome dei propri principi anarchici. Per B, che crede nella proprietà privata, questo sarebbe un furto tanto che non avrebbe esitazioni a denunciare A per la sua condotta.

Ancora, se A ama il sushi, riterrà che offrirne una porzione a B sia cosa buona e giusta perché gradirebbe che B facesse la stessa cosa con lui. B, però, non sopporta il pesce crudo e non ne offrirebbe mai ad A. Anzi, se A insistesse, B potrebbe anche offendersi per l’ostinazione di A, incapace di comprendere che i suoi gusti sono diversi da quelli del suo interlocutore.

Incidentalmente, situazioni del genere sono alla base di molti passi falsi relazionali. Si pensi a chi regala al proprio partner o all’amico un oggetto perché a lui/lei piacerebbe ricevere il medesimo regalo. In casi del genere, non tenere conto dei gusti dell’altro/altra può portare a una crisi del rapporto, le cui conseguenze potrebbero essere anche gravi, soprattutto se i passi falsi sono ripetuti.

Considerazioni simili possono farsi anche a proposito della versione negativa della Regola aurea: “Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te”. Ad esempio, se credo che i poveri non debbano essere aiutati perché sono responsabili della propria sciagura e, dunque, non vorrei ricevere alcun soccorso nel caso mi trovassi nella medesima condizione, agirò allo stesso modo nei confronti degli indigenti che mi capiterà di incontrare. Se ritengo che la sofferenza serva all’essere umano per acquisire meriti agli occhi del Creatore, non mi muoverò in aiuto di coloro che soffrono nella convinzione che ciò si tradurrà per essi in un vantaggio religioso.

Da questi esempi, emerge chiaramente che la Regola aurea non sembra in grado di riconoscere l’esistenza di legittime differenze valoriali. L’esito paradossale è che essa sembra promuovere una condotta morale egocentrica in cui i valori del soggetto che “agisce” la regola diventano i valori di riferimento di tutti, anche se sappiamo che, nella vita di tutti i giorni, non accade praticamente mai che due individui condividano esattamente gli stessi valori, gusti e preferenze.

In alcuni casi, come è evidente dagli esempi addotti a proposito della versione negativa della Regola aurea, essa sembra addirittura legittimare comportamenti che, per altri versi, sarebbero definibili come immorali.

C’è poi un altro ordine di problemi che sembra rendere problematica l’applicazione universale della Regola aurea. Chi sono gli altri nei riguardi dei quali fare ciò che vorremmo fosse fatto a noi? Tutti i nostri simili? Solo i nostri parenti, o amici? Solo i nostri connazionali, corregionali o compaesani? Solo quanti condividono la nostra religione, i nostri valori politici, i nostri gusti estetici, alimentari, sportivi? Qui la faccenda si fa complicata perché la Regola aurea non impone un obbligo nei confronti del nostro prossimo, né specifica da chi esso debba essere composto, né se per “altri” debba intendersi “tutti”. Un bel guazzabuglio da cui non è facile districarsi. Il rischio è che, identificando gli altri con una sola categoria di persone, il precetto possa avere come conseguenza non intenzionale la messa in atto di condotte discriminatorie nei confronti di tutti coloro che non sono compresi fra i destinatari dello stesso con paradossali esiti “parziali” o, comunque, non universali.

Il filosofo Alan Tapper (2022) evidenzia altre quattro importanti criticità della Regola aurea.

La prima è che essa non ha niente da dire nel caso B non intenda ricambiare l’azione benefica di A. Anche se A e B condividono gli stessi assunti valoriali, B potrebbe non volere rendere ad A il beneficio avuto da questi e la regola aurea non dice nulla su come “l’altro” debba comportarsi. In sintesi, la reciprocità, caratteristica attribuita in maniera preminente alla regola aurea, di fatto è solo apparente.

La seconda criticità è che la Regola aurea si basa esclusivamente su una volontà, un desiderio (“Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”) e non impone alcun obbligo morale oggettivo. In altre parole, l’agente morale non è impegnato ad agire moralmente in quanto la sua condotta è orientata meramente da quello che vorrebbe l’altro facesse a sé. Stando così le cose, manca uno degli elementi fondamentali della condotta etica, come tradizionalmente intesa: l’imperativo morale.

La terza criticità individuata da Tapper riguarda il problema della benevolenza. La Regola aurea invita a essere benevolo nei confronti dell’altro solo se tale benevolenza scaturisce dalla “consultazione” dei propri desideri, ma in questo modo la condotta dell’agente morale non pare informata da una considerazione appropriata del concetto di benevolenza, che risente eccessivamente della soggettività dell’agente.

Infine, la quarta criticità è che la regola aurea non motiva, di fatto, a mettere in atto una vera condotta benevola in quanto la benevolenza è motivata da considerazioni meramente egoistiche, non necessariamente da generosità, gentilezza e interesse per l’altro. Ancora una volta, la condotta altruistica è tale solo in apparenza, non essendo fine a sé stessa.

Per quanto, dunque, possa sembrare blasfemo, il precetto “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”, se esaminato criticamente, non si rivela affatto un precetto universale; fa del soggetto agente e dei suoi desideri il centro dell’azione morale, promuovendo così una sorta di egocentrismo morale; fa leva sui desideri dell’agente piuttosto che su una disposizione realmente morale; infine, non sembra conformarsi a criteri morali particolarmente elevati, incoraggiando, talvolta, condotte immorali.

Il filosofo Harry J. Gensler (2013), in difesa della Regola aurea, afferma che essa può funzionare solo in assenza di flawed desires (“desideri fallaci”). Il guaio è che l’essere umano è per sua natura “fallace” e i desideri che formula non possono che riflettere la sua naturale inclinazione alla fallacia.

Riferimenti

Gensler, H. J., 2013, Ethics and the Golden Rule, Routledge, New York and London.

Küng, H., Kuschel, K.-J., 1993, A Global Ethic: The Declaration of the Parliament of the World’s Religions, SCM Press, London.

Shaw, G. B., 1903, Man and Superman. A Comedy and a Philosophy, Archibald Constable and Co, Westminster.

Tapper, A., 2022, “What Is Wrong with the Golden Rule?”, International Journal of Applied Philosophy, vol. 36, n. 2, pp. 251-261.

 

 

 

 

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Due cose che non sopporto. Anzi, odio

Ci sono due cose, tra tante, che proprio non sopporto. Mi arrischio a dire che le odio, come fanno gli adolescenti quanto qualcosa li irrita.

La prima cosa.

Le persone che, rivolgendosi a me, esordiscono con “Perdonami!”.

“Perdonarti?”, mi verrebbe da dire. “Non sono un prete! E poi che cosa hai da farti perdonare? Quali peccati hai commesso o hai intenzione di commettere? Dovrei preoccuparmi? O assolverti? Nel secondo caso, non ne avrei nemmeno la facoltà. E allora perché l’indice e il medio della mia mano destra sono già nella posizione del gesto della benedizione?”.

Barattando cortesia con sottomissione, “Perdonami!” è un inutile salamelecco, un esordio da servi, un prologo da schiavi, un rachitismo della mente. Comunica subordinazione e scarsa autostima. Da evitare assolutamente se volete essere rispettati nella vita. Ottimo, se volete ingraziarvi un potente che adora – o ha bisogno costante di – essere incensato per compensare il profondo baratro di nullità che sente dentro di sé.

La seconda cosa.

I manifesti funebri che antepongono al nome del defunto titoli come “prof.”, “ing.”, “dott.”.

Di fronte alla morte, simili titoli appaiono ridicoli, patetici, volgari, pleonastici. Di fronte alla morte, conta solo l’essere nella sua interezza, come comunicata dal nome e dal cognome, senza orpelli di sorta. I titoli limitano, rinchiudono in un ruolo, asserviscono a una funzione, rinserrano in un compito. La morte se ne frega di titoli e apposizioni. La morte pretende l’assoluto. Perciò è bene presentarsi al suo cospetto in maniera assoluta. Senza infingimenti. E senza titoli.

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Il bias dell’attribuzione ostile

Tra tutti i bias che condizionano la mente umana conducendola a una visione distorta della realtà, uno dei più diffusi tra gli adolescenti è l’Hostile Attribution Bias o “Bias dell’attribuzione ostile” Si può definire come la tendenza a credere che le altre persone abbiano costantemente sentimenti o intenzioni ostili nei propri confronti e si manifesta con dichiarazioni come “Mi odia”, “Non mi sopporta”, “Ce l’ha con me”. Ad esempio, una persona dotata di forte bias di attribuzione ostile, vedendo due individui ridere a pochi metri di distanza, tende a interpretare la loro condotta come se fosse rivolta contro di sé, pur in assenza di ragioni per cui ciò dovrebbe accadere.

Naturalmente, il più delle volte tale credenza non ha alcuna corrispondenza con la realtà. La ricerca scientifica ha rivelato che questo bias è diffuso soprattutto tra bambini e adolescenti aggressivi, vittime di bullismo o di abusi di vario tipo.

Tra gli adulti, l’Hostile Attribution Bias è associato a situazioni relazionali conflittuali, ad esempio nei rapporti tra partner. I genitori che hanno un alto livello di Hostile Attribution Bias hanno maggiori probabilità di punire severamente i propri figli e di creare attriti all’interno del proprio nucleo familiare.

Come dicevo, però, il bias dell’attribuzione ostile è diffuso soprattutto tra gli adolescenti. È probabile che ciò sia dovuto anche a scarsa autostima e complessi di inferiorità in situazioni ambigue in cui non si è in grado di valutare accuratamente le intenzioni altrui, condizioni tipiche dell’adolescenza.

Non riuscendo a “leggere” bene le situazioni che si trovano a vivere, gli adolescenti attribuiscono atteggiamenti ostili a individui che sono del tutto indifferenti nei loro riguardi o, addirittura, che hanno sentimenti positivi verso di loro.

È necessario acquisire precise abilità sociali per superare questo bias che, se trascurato, può protrarsi fino in età adulta e portare a condurre a una vita da reclusi per timore di incontrare individui ostili.

La prossima volta che ascoltiamo un adolescente affermare con convinzione: «Quello mi odia!» oppure «Quella non mi può vedere!», sforziamoci di pensare che forse ciò accade per una errata attribuzione mentale, spesso inevitabile se non si è dotati delle giuste competenze sociali; competenze sociali che, tuttavia, si affinano con il tempo e con l’esperienza per cui è necessario avere pazienza quando ragazzi e ragazze esprimono opinioni estreme nei confronti dei propri simili.

Riferimenti:

Nasby, W., Hayden, B., DePaulo, B. M., 1980, “Attributional bias among aggressive boys to interpret unambiguous social stimuli as displays of hostility”, Journal of Abnormal Psychology, vol. 89, n. 3, pp. 459–468.

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Nostalgia canaglia, anzi… criminale

Può la nostalgia essere una delle cause della criminalità? Può uno stato d’animo di acuto desiderio e rimpianto malinconico per quanto è trascorso o lontano essere alla base di un incendio doloso o di un gesto omicida? Secondo il criminologo austriaco Hans Gross (1847-1915), la risposta è sì.

Lo apprendiamo dal suo Psicologia criminale. Un manuale per giudici, professionisti e studiosi (1918), uno dei testi fondatori delle scienze forensi, in cui un’intera, per quanto breve, sezione è dedicata alla nostalgia come causa scatenante di azioni criminali.

Per Gross, la nostalgia, che alcuni teorici dei secoli precedenti definivano addirittura una malattia, può essere contrastata nella sua fase più acuta e struggente solo facendo esperienza di forti stimoli sensoriali. Quando tali stimoli non sono riconducibili a condotte lecite, possono essere tratti anche da azioni illecite, anzi criminali, come appiccare un incendio o uccidere un qualunque essere umano. Leggiamo le parole di Gross:

La questione della nostalgia è di fondamentale importanza e non deve essere sottovalutata. È stata molto studiata e si è giunti alla conclusione che soprattutto i bambini (in particolare durante il periodo della pubertà), e le persone idiote e deboli di mente, soffrono molto di nostalgia e cercano di combattere il sentimento opprimente di sconforto che da quella deriva con potenti stimoli sensoriali. Per questo motivo, sono facilmente spinti a commettere reati, in particolare ad appiccare incendi. Si sostiene che le persone prive di istruzione, che vivono in regioni solitarie e molto isolate, in cima alle montagne, nelle grandi brughiere o nelle zone costiere, sono particolarmente soggette alla nostalgia. Ciò appare vero e si spiega con il fatto che le persone istruite trovano facilmente distrazione dai loro pensieri tristi e, in una certa misura, portano con sé parte della cultura di provenienza mescolandola alla cultura più o meno internazionale da essi vissuta. Allo stesso modo, è plausibile che gli abitanti di una regione non particolarmente individualizzata non notino così facilmente le differenze. Soprattutto chi si trasferisce da una città all’altra si ritrova facilmente, ma la montagna e la pianura posseggono valori così distanti che il senso di estraneità è opprimente. Dunque, se il nostalgico ne è capace, cerca di annientare la nostalgia dedicandosi a piaceri più frastornanti ed elettrizzanti; se non ne è capace, incendia una casa o, in caso di necessità, uccide qualcuno: in breve, ciò di cui ha bisogno è un sollievo esplosivo. Tali eventi sono così numerosi che dovrebbero ricevere opportuna attenzione. Dovremmo prendere in considerazione il fattore nostalgia ogni volta che non è dato trovare un movente più appropriato per la violenza e il sospettato è una persona che esibisce le caratteristiche sopra menzionate. D’altra parte, se si scopre che il sospettato è davvero affetto da nostalgia, da una nostalgia struggente per i consanguinei, si dispone di un indizio della sua criminalità. Di norma, individui così pietosi e infelici sono così poco propensi a negare il reato da essi commesso che la loro sofferenza non aumenta percettibilmente a causa dell’arresto. Oltre a ciò, il procedimento legale a cui sono sottoposti è uno stimolo non indesiderato, nuovo e potente per essi.

Quando questi nostalgici confessano il misfatto da essi compiuto, non ne confessano mai, per quanto ne so, il movente. A quanto pare, non li conoscono e quindi non riescono a spiegare il loro gesto. Di norma, li si sente dire: «Non so perché l’ho fatto. Sono stato costretto a farlo». Quando tutto ciò comincia a essere anormale, deve deciderlo il medico, che deve sempre essere consultato quando la nostalgia è la causa di un crimine. Ovviamente, non è impossibile che un criminale, per suscitare pietà, spieghi il suo crimine come conseguenza di una nostalgia insormontabile, ma ciò non è mai vero perché, come abbiamo dimostrato, chi agisce per nostalgia non ne è consapevole e non è in grado di riferirlo.

Se tutto ciò è vero della nostalgia, è lecito supporre che uguali reazioni violente siano possibili in risposta ad altri stati d’animo demoralizzanti. Mi riferisco in particolare alla noia.

La cronaca ci restituisce continuamente episodi in cui azioni aggressive e brutali vengono compiute da individui tediati, come nel caso dell’omicidio recente di Sharon Verzeni, uccisa appunto “per noia” da Moussa Sangare, un trentunenne alla ricerca di emozioni forti.

Per quanto possa sembrare paradossale, anche stati d’animo “accidiosi” come la noia e la nostalgia generano azioni violente e brutali. Forse Gross esagerava. Forse la nostalgia non è così pericolosa come pensava. O forse l’essere umano è da temere sempre. Anche quando sembra malinconico e depresso.

Riferimento

Hans Gross, 1918, Criminal Psychology. A Manual for Judges, Practitioners, and Students, Little, Brown, and Company, Boston. Section 17. (4) “Nostalgia”.

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Pareidolia:
Illusione percettiva che porta a interpretare uno stimolo di per sé vago e confuso, sia esso visivo o sonoro, in maniera chiara e riconoscibile

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Il lavoro nobilita l’uomo

… e lo rende libero (Arbeit macht frei), come motteggiavano grottescamente gli ingressi dei lager nazisti durante la Seconda guerra mondiale. C’è da sospettare, però, che dietro tali formule ripetute fino alla nausea – soprattutto la prima, esente da ogni connotazione nazista – si nasconda qualcosa di ineffabile, che si ha pudore a rivelare apertamente. È curioso, infatti, che un’attività contrassegnata sin dalle sue origini come fatica sgradevole, sforzo abietto, vile necessità sia etichettata come nobilitante. Non sarà che la nobiltà di cui si vanta il noto adagio serva solo una funzione di ipocrita copertura o, meglio, una funzione compensativa, finalizzata a rendere accettabile un qualcosa che accettabile non è, a barattare una occupazione abbrutente, umiliante e deludente con un misero riconoscimento formulaico, che non acquista maggiore verità per il fatto di essere ripetuto all’infinito?

“Il lavoro nobilita l’uomo” – frase la cui paternità molti attribuiscono a Charles Darwin – avrebbe, dunque, per l’essere umano (non solo per gli uomini) lo stesso valore consolatorio di detti come “Sposa bagnata, sposa fortunata” o di celebri profezie bibliche come “Gli ultimi saranno i primi” (Matteo 20, 16). Il conforto che esso dona è un misero palliativo alle sofferenze che da sempre il lavoro procura a uomini e donne. Si tratta di una retorica alleviatrice veicolata dalla ridondante reiterazione di parole che trasformano un significato nel suo contrario, non dissimilmente da quanto accade in 1984 di George Orwell (1903-1950), dove “la pace è guerra, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”. È così che il lavoro diventa nobiltà, che il dolore si converte masochisticamente in valore.

La vera natura del lavoro, in realtà, è sancita già in Genesi 3, 17 dove leggiamo: «Ad Adamo disse: “Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie e hai mangiato del frutto dall’albero circa il quale io ti avevo ordinato di non mangiarne, il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita”». E 2 Tessalonicesi 3, 10 ne raccomanda il valore, minacciando: «Se uno non vuole lavorare neppure mangi».

Leone XIII (1810-1903) nella sua Rerum Novarum (1891) si dimostra perfettamente allineato con la lettera della Bibbia quando afferma la necessità del lavoro faticoso:

Quanto al lavoro, l’uomo nello stato medesimo d’innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell’animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell’oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen 3,17). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l’uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell’uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v’è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali.

Le convinzioni di Leone XIII non circolano solo tra i cattolici, se è vero che anche Lenin (1870-1924) amava ripetere: «Chi non lavora non mangia: ecco la regola essenziale, iniziale, principale che possono e debbono applicare i soviet quando saranno al potere» (cit. in Pertosa, Santoni, 2017, pp. 28-29), monito che qualche decennio dopo fu raccolto da Adriano Celentano nella canzone “Chi non lavora non fa l’amore”.

Ciò che emerge dal racconto biblico e dalle varie epigenesi, colte o pop, che a esso sono seguite è che il lavoro è affanno, sofferenza, disagio, per quanto necessario alla sopravvivenza della specie. Ma tale natura penosa è continuamente velata da un’ideologia del lavoro come dovere e come riscatto, ormai interiorizzata da millenni, che ha reso sopportabili secoli di miseria e di fatica. Anzi, come osserva Philippe Godard, «oggi il lavoro è a tal punto interiorizzato che metterlo in discussione equivale a mettere in discussione la stessa umanità dell’uomo» (Godard, 2011, p. 53). Così come è saldamente interiorizzata l’idea del lavoro come nobile dovere. Ma la verità è che il concetto di dovere associato al lavoro, nota il grande filosofo inglese Bertrand Russell (1872-1970), è «un mezzo escogitato dagli uomini al potere per indurre altri uomini a vivere per l’interesse dei loro padroni anziché per il proprio. Naturalmente gli uomini al potere riescono a nascondere anche a se stessi questo fatto, convincendosi che i loro interessi coincidono con gli interessi dell’umanità in senso lato» (Lafargue, Russell, 1992, p. 106).

L’etica del lavoro, continua Russell, è l’etica degli schiavi «e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi» (Lafargue, Russell, 1992, p. 105), anche se, aggiunge Paul Lafargue (1842-1911), il genero di Marx, «i preti, gli economisti, i moralisti hanno proclamato il lavoro sacrosanto. Da uomini ciechi e limitati quali sono, hanno voluto essere più saggi del loro stesso Dio; uomini fiacchi e spregevoli, hanno voluto riabilitare ciò che il loro Dio aveva maledetto» (Lafargue, Russell, 1992, p. 57).

Il filosofo Giuseppe Rensi (1871-1941) è probabilmente tra i pochi che hanno scoperchiato la vera natura del lavoro. Rensi scorge una vera e propria relazione tra “dignificazione” del lavoro e natura dello stesso. Quanto più il lavoro è ritenuto infimo, detestabile, miserevole, tanto più aumenta la necessità di rappresentarlo come somma virtù.

Non ci devono ingannare le frasi d’apoteosi della funzione del lavoro che si ripetono sempre più frequenti e sonore negli ambienti o sui giornali operai. Se guardiamo, oltre queste mere frasi, alla realtà, vediamo chiaramente come al crescere dell’importanza economica, della considerazione sociale, dell’ascendente politico del lavoro, vada, parallelo (o meglio, sia il necessario precedente) il fastidio profondo, l’insofferenza, il senso d’insopportabilità, l’odio del lavoro stesso, in quelle classi appunto che, vivendo di questo, si sforzano di sospingere sempre più in alto, in ogni campo, la valutazione di esso. La crescente valutazione, autorità, dignificazione del lavoro, non è che effetto della ripugnanza e dell’odio, sempre più chiari e meno compressi, che esso ispira, ossia dell’assoluta svalutazione morale in cui esso è caduto presso i lavoratori, del suo apparire incoercibilmente a questi come un fatto puramente materiale e bruto, spoglio di ogni valore etico, da cui preme, quanto più si può, sottrarsi […]. Le classi lavoratrici odiano il lavoro e vogliono che sia sempre più valutato appunto perché lo odiano. L’odio pel lavoro; questo è il propulsore reale dell’esigenza che sotto tutti gli aspetti esso acquisti un sempre maggior apprezzamento (Rensi, 2012, pp. 41-42).

E ancora:

Tutti gli uomini odiano il lavoro. E necessariamente e con ragione: perché – e questo è il nocciolo del tragico viluppo in cui l’umanità si dibatte invano circa questa questione – il lavoro è meritamente odioso. Non è una cosa nobile, ma una necessità inferiore della vita della specie e dell’esistenza dei più, ripugnante essenzialmente alla più alta natura dell’uomo; per cui si può affermare che la misura della nobiltà di tempra d’uno spirito umano è data dal modo con cui egli considera il lavoro: tanto più è nobile, quanto più lo abborre, tanto più è volgare e bassa quanto più si lascia, contro il proprio vero, diretto ed immediato istinto, persuadere dai teoremi d’una morale convenzionale ad idealizzarlo ed estollerlo (Rensi, 2012, pp. 43-44).

Ed ecco la “legge suprema” di Rensi sul lavoro:

Quanto più il lavoro è sentito come cosa spiritualmente nulla o avversa e ripugnante, tanto più lo si dignifica e valorizza, e per converso, tanto più lo si svaluta, quanto più è avvertito (come nel caso del lavoro intellettuale) essere cosa atta a colmare l’anima, a dar un senso di pienezza alla nostra vita psichica, una cosa, insomma, rivestita di profondo significato spirituale (Rensi, 2012, p. 52).

Solo il gioco e la contemplazione rendono gli esseri umani degni di sé, essendo attività svolte unicamente per il piacere di svolgerle.

Chi è costretto a  destinare il meglio della sua giornata, cioè del suo tempo, ossia della sua vita (e siano pure anche le otto o le sette o 1e sei ore, e lavori egli come salariato o padrone o membro del proletariato dittatore che percepisca e divida l’intero provento del lavoro) ad un lavoro che gli pesa, che forse odia, o che solo lo annoia, per cui non ha interesse diretto, ma solo l’interesse indiretto del guadagno che da esso ricaverà, lavoro che quindi non farebbe anche senza essere pagato e per voglia spontanea, che non è un’attività che lo appaghi pel solo gusto di esercitarla – costui, si può forse dire che sia trattato come fine? No; manifestamente nell’atto del suo lavoro egli è semplice mezzo; la sua vita, il suo io, in quanto presi nel lavoro, non appartengono più a lui, perché egli non ne può fare ciò che vuole; essi sono mezzi, sia pure mezzi per un risultato (ulteriore ed esterno alla sua attuale attività-lavoro) ch’egli stesso percepirà e godrà; sia pure, cioè, mezzi della sua stessa vita e suo stesso io, della sua vita e del suo io d’un altro momento. O, come anche si può dire, il suo spirito, intanto che egli lavora, è costretto a servir di mezzo a suoi elementari bisogni organici come quello di vivere; per quanto i bisogni siano suoi egli è sempre soltanto un mezzo (Rensi, 2012, pp. 68-69).

Il lavoro, dunque, è dichiarato nobile per coprire i suoi aspetti odiosi e necessari. La retorica della nobiltà serve a conferire un senso giustificatorio e assolutorio a un complesso di attività che uomini e donne hanno svolto da sempre per pura necessità. Tanto è vero che pochi tra noi farebbero il loro lavoro se non fossero pagati. Ma c’è un altro aspetto per cui il lavoro è ritenuto dignitoso dalla società. Ne parla Friedrich Nietzsche (1844-1900) in uno dei suoi aforismi meno noti:

Gli apologeti del lavoro. Nell’esaltazione del «lavoro», negli instancabili discorsi sulla «benedizione del lavoro» vedo la stessa riposta intenzione che si nasconde nella lode delle azioni impersonali di comune utilità: la paura, cioè, di ogni realtà individuale. In fondo, alla vista del lavoro – e con ciò si intende sempre quella faticosa operosità che dura dal mattino alla sera – si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare; esso si pone sempre sott’occhio un piccolo obiettivo e procura lievi e regolari appagamenti. Così una società in cui di continuo si lavora duramente, avrà maggiore sicurezza: e si adora oggi la sicurezza come la divinità somma (Nietzsche, 1981, p. 122).

Il lavoro serve ad assegnare e mantenere al loro posto le persone in modo che esse non dedichino le proprie energie e il proprio tempo ad attività potenzialmente pericolose per la società stessa. Predicando la dignità del lavoro, al contempo ponendo ostacoli, dati i limiti dei corpi e delle menti umane, alla pianificazione e realizzazione di attività non conformi ai principi su cui si sorregge, la società “normalizza” i suoi membri, garantendosi ordine e sicurezza. Uomini e donne, sfiniti da ore e ore di lavoro brutalmente privo di significato, possono solo rivolgersi ad attività di consumo e tempo libero per recuperare un minimo di energia, che, però, servirà a riprendere la successione infinita di alternanza sforzo-riposo fino alle soglie della pensione, età in cui non si ha, di norma, né la forza né la volontà di fare alcunché. Ogni anelito innovativo viene, dunque, smorzato nel nome della sacralità del lavoro. È per questo che la nostra società glorifica il lavoro e teme la disoccupazione come la più grande piaga esistenziale. Non importa quale lavoro si abbia, l’importante è lavorare. E se non si lavora, si diventa “fannulloni”, “buoni a nulla”, “smidollati”. Tutto questo lessico sanzionatorio non è casuale, ma serve a sostenere quotidianamente la perpetuazione del lavoro per come lo conosciamo.

Il lavoro occupa le nostre vite, il nostro tempo, assorbe quasi interamente le nostre energie. Per rendere tutto ciò giustificabile agli occhi dei lavoratori, è necessario creare una retorica nobilitante che avvolge come una patina dorata il proprio oggetto di riferimento, facendolo apparire quasi magico, sicuramente dignitoso. Si pensi all’uso del verbo “sistemarsi” per descrivere la condizione di chi ha trovato un impiego stabile. Quanti riflettono sul fatto che “sistemarsi” vuol dire “entrare a far parte del sistema”, un termine fino a qualche anno fa inviso ai più per le sue connotazioni eccessivamente conformistiche? Si pensi, inoltre, che altri termini connotati positivamente dal lessico comune nascondono un’origine servile e strumentale: “impiegato” è il participio passato di “impiegare”, ossia, “usare”, “adoperare”, ma se tutti, o quasi, ambiscono a essere “impiegati”, a nessuno piace definirsi “usato”. “Dipendente” è il participio presente del verbo “dipendere”, che rimanda a una condizione di subalternità. “Dipendere” da qualcuno è visto come un ostacolo all’autonomia personale nella nostra società, eppure tanti aspirano a essere “dipendenti” pubblici o privati.  “Funzionario” significa “destinatario di una funzione”, espressione che appare ridurre l’essere umano all’ingranaggio di un meccanismo, eppure diventare “funzionario” è l’ambizione di molti concorsisti pubblici. La retorica nobilitante del lavoro riesce a far apparire attraenti condizioni che non lo sono, conferendo loro status e prestigio. Un’operazione affine alla magia che rende prevedibile e controllabile il comportamento umano, impedendo, però, come sosteneva Nietzsche, il potenziarsi della ragione e il desiderio d’indipendenza.

In questo senso, si può dire che il lavoro svolga un’azione disciplinare sui lavoratori, esercitando un controllo totalitario su di essi attraverso l’imposizione di un’occupazione monotona e avvilente, gabbie temporali predeterminate simbolizzate da timbrature all’entrata e all’uscita, obiettivi alienanti e impersonali, forme di sorveglianza sempre più intrusive. Il risultato è un impoverimento sistematico delle potenzialità umane, magistralmente espresso dall’anarchico Bob Black:

Tu sei ciò che fai. Se fai un noioso, stupido, monotono lavoro, hai buone probabilità di diventare noioso, stupido e monotono. Il lavoro è la migliore spiegazione per il cretinismo strisciante attorno a noi, più dei pur notevoli meccanismi di rimbambimento quali televisione e istruzione. Persone irreggimentate per tutta la vita, sospinte dalla scuola al lavoro, rinchiuse all’inizio in famiglia e alla fine in case di cura, sono abituate alla gerarchia e schiavizzate psicologicamente. La loro attitudine all’autonomia è così atrofizzata che la paura della libertà è tra le loro poche fobie razionalmente fondate. L’addestramento alla dedizione verso il lavoro si svolge nelle famiglie dove nascono, riproducendo così il sistema in diversi modi, nella politica, nella cultura, e in ogni altro settore. Una volta che togli vitalità alla gente sul lavoro, facilmente si sottometterà alla gerarchia e agli esperti ovunque (Black, 2023, pp. 32-33).

Per Aristotele una vita degna era indipendente dalle necessità e dalle relazioni che da queste scaturivano. Ogni modo di essere dedito esclusivamente alla conservazione della nuda vita era considerato una forma inferiore e non libera di esistenza. La vita vera, degna, era quella consacrata a cose né necessarie né semplicemente utili: il bello, la polis, la filosofia. Solo la libertà dalla necessità portava alla felicità (l’eudaimonia) che era una condizione legata innanzitutto alla ricchezza e alla salute. Portando alle estreme conseguenze questa riflessione, il lavoro era giudicato una sorta di malattia in quanto imponeva una necessità che impediva la piena libertà. Certo di acqua ne è passata sotto i ponti da quando Aristotele diceva queste cose, e la nostra società, basata sul lavoro, è stata costretta a glorificarlo per poter progredire. Milioni di vite che aristotelicamente sarebbero indegne hanno così trovato un senso alle loro esistenze finalizzate al necessario, al non bello. Celebriamo ipocritamente il lavoro perché non possiamo farne a meno. Ma la realtà è che il lavoro rende schiavi, assoggetta, rende mansueti e priva della libertà creativa e di vivere.

Ciò vale anche nella contemporaneità, dove abbondano quelli che l’antropologo David Graeber (1961-2020) chiama bullshit jobs (“lavori di merda”). Per Graeber, in una società come la nostra, in cui il significato del lavoro è fine a sé stesso,

Siamo arrivati al punto di credere che uomini e donne che non lavorano quanto dovrebbero o che sono impegnate in occupazioni che non amano particolarmente siano cattive persone, che non meritano amore, cura o assistenza da parte della comunità. È come se avessimo collettivamente acconsentito al nostro stesso asservimento. Quando ci rendiamo conto che per la metà del tempo siamo impegnati in attività del tutto prive di significato o perfino controproducenti – in genere agli ordini di una persona che non ci piace –, la prima reazione politica consiste nel ribollire di risentimento perché altre persone potrebbero non essere cadute nella medesima trappola. Di conseguenza odio, rancore e sospetto sono diventati il collante che tiene assieme la società (Graeber, 2018, p. 20).

Graeber definisce bullshit jobs quelle occupazioni retribuite che sono così totalmente inutili, superflue o dannose che nemmeno chi le svolge può giustificarne l’esistenza, anche se si sente obbligato a far finta che non sia così (Graeber, 2018, p. 31). Secondo l’antropologo statunitense, nella nostra società esistono almeno cinque categorie di lavori senza senso: il tirapiedi (flunky), lo sgherro (goon), il ricucitore (duct taper), il barracaselle (box ticker), il supervisore (taskmaster).

I tirapiedi esistono solo o principalmente per far sembrare o sentire importante qualcun altro. Alcuni esempi sono: gli uscieri e le guardie del corpo.

Gli sgherri presentano una componente di aggressività ed esistono solo perché altri li impiegano. Esempi: lobbisti, addetti al telemarketing, lobbisti.

I ricucitori sono dipendenti i cui lavori esistono solo per un difetto o una mancanza nell’organizzazione; sono lì per risolvere un problema che non dovrebbe esistere. Un esempio sono coloro che hanno il compito di rimediare agli errori dei superiori.

I barracaselle sono dipendenti che esistono solo o principalmente per consentire a un’organizzazione di affermare che sta facendo qualcosa che in realtà non sta facendo, come chi è addetto a compilare moduli che non hanno alcuna utilità.

I supervisori, infine, sono individui il cui lavoro consiste unicamente nell’assegnazione di lavoro ad altri o nel creare mansioni senza senso da far svolgere ad altri.

Una volta che si è consapevoli di tutto questo, come è possibile continuare a ripetere che “il lavoro nobilita l’uomo”?

Riassumiamo.

Il lavoro nella società contemporanea rappresenta una condizione sconfortante, avvilente, deprimente. Tanto più in quanto pretende di assorbire gran parte del nostro budget temporale ed energetico.

Il lavoro uccide non solo il tempo che dedichiamo al lavoro, ma anche il resto del tempo: quello che dedichiamo ai giochi, alle vacanze, al “tempo libero”, che, in realtà, è tempo destinato al recupero delle forze una volta che queste sono state svuotate dal lavoro e serve a ricaricarci in vista di nuove “sedute di profonda alienazione”.

Il lavoro “ci disciplina”, facendo di noi degli esseri “ragionevoli” e “maturi”, termini con i quali si certifica la totale integrazione passiva dell’individuo nel sistema di cui fa parte. Ci disciplina anche nel senso che plasma i nostri desideri, la nostra volontà, le nostre pulsioni in modi che, prima di iniziare a lavorare, non condivideremmo di certo.

Il lavoro ci schiavizza, costringendoci a venderci in cambio di denaro e trasformando la nostra dignità in una merce come tante altre.

Il lavoro ci rende individui malati e fragili: ci fa ammalare a causa delle posture innaturali che ci costringe ad assumere e ci rende fragili psichicamente perché senza di esso sentiamo di non valere niente.

Il lavoro limita la nostra libertà, obbligandoci a rimanere nello stesso luogo e in compagnia delle stesse persone per giorni, mesi e anni.

Il lavoro rende indolenti le nostre facoltà mentali e intellettuali, incanalandole verso attività stagnanti, stabilite da altri.

Insomma, viene voglia di dire, con Bertolt Brecht, «Che cos’è l’omicidio di un uomo di fronte alla sua assunzione?» (Brecht, 2018, pp. 87-88).

Riferimenti

Black, Bob, 2023, L’abolizione del lavoro e altri saggi, Ortica Editrice, Aprilia (LT).

Brecht, B., 2018, “L’opera da tre soldi”, in I capolavori, vol. I, Einaudi, Torino.

Godard, P., 2011, Contro il lavoro, Elèuthera, Milano.

Graeber, D., 2018, Bullshit jobs, Garzanti, Milano.

Lafargue, P., Russell, B., 1992, Economia dell’ozio, Olivares, Milano.

Nietzsche, F., 1981, Aurora, Mondadori, Milano.

Orwell, G., 1986, 1984, Mondadori, Milano.

Pertosa A., Santoni L., 2017, Lavorare sfianca, Enrico Damiani Editore, Salò, Brescia.

Rensi, G., 2012, Contro il lavoro, Gwynplaine, Camerano (AN).

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“Borghesia e burocrazia” di Claudio Treves

Si avverte una allarmante sensazione di dejà vu, leggendo “Borghesia e burocrazia” di Claudio Treves (1869-1933), articolo scritto nel 1894 per la rivista La critica sociale e qui da me trascritto. Giornalista e socialista, Treves è noto, oltre che per il suo impegno politico, per aver sfidato a duello Mussolini nel 1915, non riuscendo a provocargli che qualche lieve ferita. Pacifista e convinto antifascista, fu esiliato in Francia, dove morì nel 1933. Le sue ceneri vennero riportate in Italia soltanto il 10 ottobre 1948, dopo la conclusione del bando fascista.

Di chi e di cosa parla “Borghesia e burocrazia”? Degli impiegati pubblici. E come ne parla? Descrivendo un atteggiamento bipolare dell’opinione pubblica (e politica) nei confronti di questa categoria di lavoratori, che ricorda molto quanto accade da trent’anni in Italia.

Ci fu un tempo, afferma Treves, in cui era considerato dovere civile dare addosso ai travet nostrani, accusandoli di essere «cavallette, noiose, pedanti e divoratrici del pubblico erario». I funzionari pubblici venivano derisi, denigrati, umiliati. Si coniò perfino un neologismo – “impiegomania” – per designare una precisa deriva morale degli italiani, indicati sdegnosamente come “popolo di impiegati”.

Al tempo stesso, gli impiegati erano visti come un male necessario dalle forze borghesi conservatrici, le quali, procurando «al maggior numero di diplomati e di laureati un posticino sicuro, famelico sì ma pensionato», miravano a sopire eventuali velleità rivoluzionarie, o semplicemente ribellistiche, di masse di individui munite di titolo di studio e aspettative crescenti. Il “posto fisso”, dunque, come misura strategica per sedare e disinnescare possibili moti di contestazione della società classista. Una vecchia tattica politica, adottata a mani basse già nei primi anni dell’Italia repubblicana a scopo clientelare, che può essere sintetizzata nella seguente formula: concedi al tuo (potenziale o reale) nemico o elettore una prebenda, un’occupazione di prestigio o semplicemente un posto di lavoro, instilla in lui (o lei) l’illusione di far parte del “sistema”, e tutta la sua rabbia e le sue grida contro le ingiustizie sociali svaniranno, mentre conquisterai i suoi voti.

Qualcosa di simile sembra essere avvenuto negli ultimi tempi in Italia. Tutti ricordiamo le invettive degli Ichino e dei Brunetta contro i dipendenti pubblici, accusati di essere fannulloni incompetenti, inefficienti e privilegiati o, in alternativa, “furbetti del cartellino”, contro cui adoperare misure draconiane e paradossali: basti pensare alla cosiddetta “trattenuta Brunetta” che decurta la retribuzione per i primi dieci giorni di malattia dell’impiegato, nella convinzione che per il dipendente pubblico la malattia è per definizione una finzione. In questo caso, lo stereotipo dell’impiegato che simula la malattia diviene immediatamente realtà incontestabile con la conseguenza paradossale che il dipendente pubblico è considerato potenzialmente immune da malattia, forse immortale, per cui se dice di stare male è perché sta fingendo. Incidentalmente, tale “visione” ricorda da vicino quella del sociologo americano Talcott Parsons, secondo il quale il malato è un deviante (sick role) perché non in grado di assolvere i ruoli che la società prevede per esso.

E che dire poi della vera e propria campagna d’odio contro i dipendenti pubblici, istituzionalizzata con la nomina a ministro della pubblica amministrazione proprio di Renato Brunetta, l’odiatore della categoria per eccellenza, forte del consenso di tanti non-impiegati pubblici, accecati dall’invidia sociale, ma ciechi anche di fronte alle disuguaglianze sociali crescenti che caratterizzano la nostra società a capitalismo avanzato?

La propaganda contro i dipendenti pubblici, avviata sulla scia degli “scandali” dei furbetti del cartellino, opportunamente strumentalizzati per fomentare l’indignazione pubblica, ha reso i lavoratori pubblici un facile bersaglio e un’agile forza acceleratrice del malcontento popolare che ha trovato così il suo suitable enemy (“nemico appropriato”) su cui riversare catarticamente la propria rabbia. Il tutto senza che nessuno, se non pochi, si sia reso conto che tale propaganda serve a distogliere l’attenzione del paese dalla progressiva erosione dei diritti sociali dei cittadini, che oggi vedono messe in pericolo le grandi conquiste del welfare state, a cominciare dalla previdenza, il cui godimento è rimandato sempre più in là nel tempo tanto che già si prospetta l’immagine inquietante del dipendente pubblico costretto a lavorare con bastone, catetere e ausili per l’udito per guadagnare un diritto che evidentemente non è più percepito come tale.

Schizofrenicamente, però, alle invettive propagandistiche contro le inefficienze e le carenze del pubblico impiego, si è affiancata di recente una campagna istituzionale di segno opposto, contrassegnata dallo slogan “Più che un posto fisso, un posto figo!”, che vorrebbe «scardinare i vecchi stereotipi per raccontare come sta cambiando la Pubblica amministrazione, scoprire le opportunità del pubblico impiego e il valore di lavorare per la collettività». Così, dopo che autorevoli rappresentanti dello Stato hanno per decenni mortificato il pubblico impiego, tacciandolo di ogni possibile nefandezza e rendendolo inviso all’opinione pubblica, gli stessi rappresentanti vorrebbero ora renderlo cool con l’aiuto di qualche video che mostra sorridenti impiegati pubblici al lavoro.

La ragione di tale inversione di tendenza è nota: la pubblica amministrazione ha bisogno di personale e le campagne di odio nei confronti del pubblico impiego non rendono facile il compito del reclutamento. Meglio, allora, una bella dose di marketing in salsa ottimistica per rendere appetibile un prodotto reso nauseante da decenni di propaganda ostile.

Ma forse, come insegna Treves, l’obiettivo delle recenti iniziative di assunzione del pubblico non è solo riempire organici in affannosa difficoltà, ma anche sottrarre a possibili tentazioni contestatarie quote di popolazione umiliate dalla scelleratezza della società neoliberista in cui viviamo. Una forma di cooptazione per attenuare possibili derive protestatarie in società come quelle odierne caratterizzate da percentuali croniche di inoccupazione e disoccupazione.

Ma, se questo è vero, non dobbiamo, comunque, dimenticare il monito finale del socialista Treves, il quale, sempre in “Borghesia e burocrazia” si domandava se «è avventatezza prevedere che, precipitando i fati, un giorno, un bel 27 del mese, lo Stato borghese, dopo aver divorato tutte le forze vive della produzione, costretto da una necessità imprescindibile darà ordine di chiudere gli sportelli delle tesorerie».

Sembra fantascienza, ma se una lezione vogliamo trarre dallo scritto del giornalista torinese è che non dobbiamo mai dare nulla per scontato, nemmeno che il lavoro pubblico continuerà così come è per sempre. La storia ci insegna che ciò che gli uomini e le donne creano cambia in continuazione. Potrebbe cambiare anche il “27 del mese”.

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