Perché non rimaniamo a casa?

Perché le persone vanno in vacanza? Che cosa le spinge ad allontanarsi da un ambiente familiare e confortevole per intraprendere viaggi lunghi e disagevoli vero mete sconosciute? E che cosa traggono da queste esperienze? Conoscenze? Relax? Divertimento? Curiosità soddisfatte? Modi di vivere alternativi?

Per l’inglese Aldous Huxley (1894-1963), il celebre autore di Brave New World (1932), Island (1962) e The Doors of Perception (1954), la risposta al perché le persone vanno in vacanza è semplice: per imitazione (ed emulazione). In particolare, per imitazione di quello che fanno le persone migliori di loro. È questa la molla che spinge milioni di individui nel mondo a sperimentare situazioni che non sperimenterebbero mai in patria, al solo scopo di vedere accresciuto il proprio status sociale e di farlo valere nei confronti di chi non mette mai il becco fuori di casa.

Viaggiare è un booster sociale: chi viaggia con una certa frequenza appare diverso agli occhi di chi non viaggia. Inoltre, ha mille argomenti di cui parlare e con cui intrattenere i suoi amici sedentari. Loro non sanno, ma il viaggiatore sa. E poco importa se i suoi racconti sono vistosamente ricamati, imbellettati, sofisticati; se i suoi inevitabili intervalli di noia si trasformano in periodi di interesse e divertimento ininterrotti; se, al di là dei confini natii, tutto appare “troppo” meraviglioso, magico “aureolato”. Del resto, al di là dei racconti, ci sono foto e video, in cui i protagonisti sono sempre sorridenti, soddisfatti e ammiccanti, ad attestare la verità delle pretese del viaggiatore.

Il viaggiatore per imitazione (emulazione) valorizza gli stereotipi correnti sui luoghi che visita, confermandoli e rafforzandoli. Così, se la profezia iniziale vuole che Londra sia fantastica, Londra finirà con l’essere effettivamente tale nei racconti ratificanti spacciati dai veterani del viaggio che, ovviamente, trascureranno gli intermezzi noiosi, le banalità incontrate, le difficoltà vissute, le esperienze ordinarie a favore di una narrazione coerentemente idilliaca, mitologica, straordinaria, degna delle migliori guide patinate sull’argomento. In questo modo, la realtà si trasfonderà in mito e l’altrove sfuggirà per sempre dal timore di essere mediocre, uguale a ogni altro posto sulla faccia della terra. Gli altri saranno sempre migliori; i luoghi del viaggio sempre più significativi dei luoghi domestici; le abitudini altrui sempre più interessanti delle proprie.

Simbolo di tutto questo è la illustre Sirenetta situata all’ingresso del porto di Copenaghen: scultura anonima, misera, mediocre come poche, eppure celebrata da chi l’ha vista dal vivo nemmeno fosse un’opera d’arte. È proprio il caso di dire che la narrazione della Sirenetta è molto più interessante della statua reale.

Il turista opera una reductio a pochi tratti significativi dei posti che visita; reductio rispetto alla quale i locali sono vocati a conformarsi, pena la delusione dell’ospite. Un napoletano che non gradisca o offra con orgoglio la sfogliatella o che non mostri riverenza nei confronti di san Gennaro è l’incubo di ogni tour operator, chiamato, per mestiere, a (di)mostrare ai suoi clienti quanto stretta sia la relazione tra quello che declama nei suoi opuscoli e la realtà vissuta dal viaggiatore che di quegli opuscoli è il lettore ideale. L’oscenità odeporica del napoletano autentico a cui non piace la pizza margherita fa sbandare la bussola cognitiva del turista, che si trova così nudo di fronte alla complessità irriducibile della vita.

Paradossalmente, l’unica esperienza autentica possibile per il viaggiatore sarebbe proprio la delusione: il disappunto della non coincidenza tra quanto promesso dai testi sacri delle guide e quanto sperimentato dall’incontro con l’indigeno di turno. Il disinganno è l’apriti sesamo di una realtà “reale” non riconducibile a pochi stereotipi liofilizzati tra le pagine dell’ennesimo dépliant dell’Ufficio informazioni. È trasgressione del prevedibile; violazione dell’attesa; affronto alla credenza interiorizzata dal turista.

Ma è proprio questo che il turista non vuole. Ciò che importa non è quello che si è vissuto “oltre confine”, ma come lo si riporta ai connazionali, convocati irrimediabilmente in qualità di testimoni per corroborare con il loro stupore (e la loro invidia) la grande impresa compiuta. La verità, come detto, è che viaggiare porta sempre con sé un forte elemento di delusione: la realtà visitata è sempre meno luccicante di quella immaginata. Ma non appena si torna a casa, quella patina sfavillante si ricompone nei commenti dei protagonisti fino a rimpiazzare la realtà “reale” del vissuto turistico. Una finzione, come altre, che contribuisce a fissare e confermare le gerarchie che la società ci impone fin dalla nascita.

Ovviamente, molte cose sono cambiate dai tempi di Huxley. Il turismo a cui fa riferimento lo scrittore britannico è quello elitario delle classi superiori – aristocratiche e borghesi – della Gran Bretagna degli anni Venti del XX secolo. Niente a che fare con l’odierno turismo low cost di massa che, sempre più, assume i contorni di un comportamento che risponde soprattutto a finalità di “consumo dislocato”, ossia semplicemente spostato in altri luoghi, e di “consumismo compensatorio”, ossia un consumismo che serve a compensare le frustrazioni e le alienazioni della vita contemporanea, in particolare, quelle che maturano in ambiente lavorativo.

Data l’inconsistenza e la mancanza di senso di molti lavori della contemporaneità, non a caso ribattezzati con il nomignolo Bullshit Jobs (che dà anche il titolo a un suo libro, pubblicato nel 2018), ossia “lavori di merda”, dall’antropologo e attivista anarchico americano David Graeber (1961-2020), non sorprende che si tenti di realizzarsi seguendo strade alternative, le quali, però, non sfuggono all’imperativo erculeo dei nostri giorni, quello che si riassume nel verbo “consumare”. Qualsiasi tipo di attività, nella società odierna, implica il consumo e le classi alienate che la abitano possono solo sperare di trarre un significato compensativo da quello che consumano. Un significato ovviamente illusorio, perché sempre di consumo si tratta, ma un consumo di tipo evasivo, lotofago, rimozionale che, almeno per lo spazio di pochi giorni, ci fa dimenticare i nostri “lavori di merda”, rigenerando le forze appassite per offrirle nuovamente in olocausto ai nostri “padroni di merda”, in un ciclo infinito di spossatezza-rigenerazione-spossatezza che è solo “funzionale al sistema”, come si sarebbe detto qualche anno fa.

Il viaggio finisce, dunque, per essere oggi quella sostanza euforizzante che lo stesso Huxley, in Brave New World, denominava “soma”, unica droga in grado di anestetizzarci nei confronti della realtà insopportabile imposta dal sistema turbocapitalistico in cui viviamo e rimetterci in sesto per tollerare quote sempre più tediose e alienanti di realtà.

Le ossessioni odeporiche contestate da Huxley come un vizio belluino sono diventate oggi una necessità che permette la sopravvivenza sia della società dei consumi da noi abitata sia di noi stessi, schiavi perenni di occupazioni senza senso che, sempre più, prendono possesso della nostra esistenza, invadendola come milizie di conquista. A questa invasione mortificante, questa colonizzazione in pianta stabile del nostro tempo, delle nostre energie e del nostro immaginario, rispondiamo talvolta con il viaggio, che non serve – lo nota bene Huxley – ad allargare le nostre menti provinciali, a stimolare la nostra immaginazione inceppata, a educarci a un pensiero liberale, ma semplicemente a dimenticare chi siamo e che cosa facciamo su questo pianeta.

Perché obliare il dolore è quanto di più meritevole possa donarci il viaggiare (o, se per questo, il leggere un libro o il vedere un film). Anche se siamo bravi a scovare ogni sorta di razionalizzazione per giustificare e legittimare questa forma di smarrimento dalla vita nel nome della cultura, dell’istruzione, dell’edificazione e di chissà quante altre idee che il nostro senso comune apprezza tanto.

Invito a leggere qui il saggio di Huxley Perché non rimanere a casa? nella versione da me introdotta e tradotta.

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Che cos’è la liberta?

Come tante nozioni ad elevato livello di astrazione, “libertà” ha in sé un’ambiguità interpretativa che la rende facilmente preda di populisti e demagoghi.

Da un lato, è un termine dalla connotazione immediatamente e universalmente positiva: a tutti piace essere liberi, tutti amano la libertà. È ovvio. È scontato. D’altro lato, a tale connotazione positiva sono associati significati diversissimi che, rivestendosi dell’alone positivo comunicato dalla connotazione, possono essere “manipolati” e presentati positivamente ai destinatari del messaggio politico secondo le convenienze demagogiche di turno.

Sulla polisemia del termine “libertà” ha scritto parole molto interessanti – e poco citate, mi sembra – Montesquieu ne Lo spirito delle leggi. È il caso di riportarle integralmente:

Non vi è parola che abbia ricevuto maggior numero di significati diversi, e che abbia colpito la mente in tante maniere come quella di libertà. Gli uni l’hanno intesa come la felicità di deporre colui a cui avevano conferito un potere tirannico; gli altri, come la facoltà di eleggere quelli a cui dovevano obbedire; altri ancora, come il diritto di essere armati e di poter esercitare la violenza; altri infine come il privilegio di non essere governati che da un uomo della propria nazione, o delle proprie leggi. Certo popolo ha preso per molto tempo la libertà per l’uso di portare una lunga barba. Alcuni hanno dato questo nome a una forma di governo e ne hanno escluso le altre. Coloro che avevano gradito il governo repubblicano, l’hanno messa nella repubblica; quelli che avevano goduto del governo monarchico, nella monarchia. Infine ciascuno ha chiamato libertà il governo conforme alle proprie consuetudini o alle proprie inclinazioni; e siccome in una repubblica non si hanno sempre davanti agli occhi, e in maniera tanto immediata, gli strumenti dei mali di cui ci si lamenta, e perfino le leggi sembrano parlarvi di più e gli esecutori della legge parlarvi di meno, la si pone generalmente nelle repubbliche, e la si esclude dalle monarchie. Infine, siccome nella democrazia sembra che il popolo faccia più o meno quello che vuole, la libertà è stata collocata in questo genere di governo, e si è confuso il potere del popolo con la libertà del popolo.

È vero che nelle democrazie sembra che il popolo faccia ciò che vuole; ma la libertà politica non consiste affatto nel fare ciò che si vuole. In uno Stato, vale a dire in una società dove ci sono delle leggi, la libertà può consistere soltanto nel poter fare ciò che si deve volere, e nel non essere costretti a fare ciò che non si deve volere.

Bisogna fissarsi bene nella mente che cosa è l’indipendenza, e che cosa è la libertà. La libertà è il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono; e se un cittadino potesse fare quello che esse proibiscono, non vi sarebbe più libertà, perché tutti gli altri avrebbero del pari questo potere (Montesquieu, 1989, Lo spirito delle leggi, BUR, Milano, vol. I, pp. 307-308).

Montesquieu lo mette bene in evidenza: “libertà” può significare tutto e il suo contrario. Può significare la libertà di possedere armi come quella di vivere in un mondo privo di armi. La libertà di scegliere i propri governanti, come quella di essere governati da un despota. La libertà di vivere in una società monoculturale, come quella di vivere in una società multiculturale.

Secondo gli intenti propagandistici, può essere convocato questo o quel significato del termine ed esaltato per aizzare le folle o assoggettarle bovinamente nel nome della medesima idea. Al limite, perfino la schiavitù può essere concepita come una forma di libertà dalla “fatica” di essere autonomi, indipendenti, responsabili.

“Lasciate a noi il comando delle vostre vite. Siate liberi!”. Sembra paradossale, ma, a pensarci, non riceviamo forse quotidianamente centinaia di ingiunzioni a cedere la nostra libertà di pensiero a favore di soggetti o enti che pretendono di pensare al nostro posto? Non ci viene chiesto continuamente di essere liberi… cedendo quote della nostra libertà?

“La pace è guerra, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”, declama George Orwell in 1984. Ma l’asservimento volontario a enti e organizzazione che dominano la nostra vita in cambio di una parvenza di libertà è forse ciò che maggiormente caratterizza l’epoca del turbocapitalismo in cui viviamo.

Orwell è già tra noi. La libertà è già schiavitù.

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Mark Twain e l’inglese turistico degli italiani

L’inglese turistico corre da sempre il rischio della faciloneria e della sciattezza. Secondo lo scrittore americano Mark Twain, che narrò i suoi viaggi in Europa nel libro Gli innocenti all’estero (BUR, Milano), le guide turistiche

conoscono l’inglese quanto basta per ingarbugliare ogni cosa, sicché ben presto si perde il bandolo della matassa (p. 157).

Lo stesso Twain così commenta i tentativi linguistici di una guida durante la sua visita a Milano

«Do you wiz zo haut can be?». Fu quanto ci chiese la guida mentre stavamo osservando i bronzi cavalli sull’Arco della Pace. Intendeva dire: volete salire lassù? Ve lo propongo come esempio di inglese turistico. Questa è la gente che rende faticosa la vita dei turisti. Non tengono mai la bocca chiusa. Parlano, parlano ed è questo il gergo che usano… No, non intendevamo «Wiz zo haut can be». Volevamo recarci alla Scala che chiamano il teatro più grande del mondo. Così facemmo (p. 61).

Più avanti, nello stesso testo, Twain riporta un biglietto stampato di un albergo sulle rive del lago di Como.

NOTISH

This hotel which the best it is in Italy and most superb, is handsome locate on the best situation of the lake, with the most splendid view near the Villas Melzy, to the king of Belgian, and Serbelloni. This hotel have recently enlarge, do offer all commodities on moderate price, at the strangers gentlemen who wish spend the season on the Lake Como (p. 67).

Insomma, nel resoconto di Mark Twain, l’inglese degli italiani proprio non ci fa una bella figura. Ma le cose non sembrano cambiate molto dall’epoca dello scrittore americano.

Come si può vedere dal cartello a esergo di questo post, esposto in una gelateria italiana qualche anno fa – un esempio tra centinaia – l’inglese turistico degli italiani è ancora “faticoso”, a riprova del fatto che abbiamo ancora molta strada da fare per accogliere degnamente i parlanti anglofoni nel nostro paese.

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Le riflessioni oziose di Bertrand Russell sulle comete

Per quale motivo le comete non esercitano più fascino su di noi? Come mai questo evento celeste da cui gli antichi traevano auspici e timori sul loro futuro ci trova indifferenti e apatici? Perché la loro apparizione, che un tempo suscitava apprensioni, destabilizzava regni e dettava giudizi morali sulle sorti dell’umanità, è ridotta oggi a circostanza perfino immeritevole di menzione nelle conversazioni quotidiane?

La risposta per Bertrand Russell (1872-1970), longevo filosofo inglese, uno dei più influenti sulla cultura mondiale del XX secolo, è semplicemente… l’illuminazione artificiale. Non il progresso della ragione, non il tramonto dei pensieri superstiziosi caratteristici dei secoli bui del passato, ma una (apparentemente) banale invenzione della contemporaneità, che ha avuto il merito non solo di rischiarare le nostre esistenze quando il sole non c’è più, ma anche di oscurare la volta celeste durante la notte, impedendoci di proiettare su di essa paure, speranze, credenze, aspettative e convinzioni e di attribuire a stelle e altri corpi dello spazio significati ordinari e straordinari, capaci di incidere sulle nostre vite.

Nei nostri centri urbani, perennemente illuminati, dove il buio è percepito non come normale alternanza alla luce del giorno, ma come minaccia potenziale, fiancheggiatrice di ladri e assassini, i “misteri” celesti non hanno ormai più nulla di misterioso, tranne forse per chi si ostina a credere all’astrologia e alle sue pseudoscienze sorelle.

Il fascino delle cose – sembra dirci Russell nelle sue brevi riflessioni sulle comete, qui di seguito tradotte – deriva anche dalla loro precaria visibilità, dal loro apparire e sparire, dal loro imporsi improvviso alla nostra vista. Ed è, paradossalmente, la luce (artificiale) a renderci ciechi, a sabotare la nostra meraviglia, a rendere invisibile all’occhio nudo il nucleo delle comete, le loro chiome (sorta di nebulosità luminosa che le circonda), lo strascico luminoso, a volte lunghissimo, che forma la loro coda, quando si avvicinano al Sole.

Certo, binocoli, telescopi, cannocchiali ci consentono di vedere cose che lo sguardo umano sarebbe raramente in grado di cogliere. La scienza e i progressi della tecnica hanno sicuramente potenziato la nostra capacità di vedere. Ma ciò ci introduce a un fascino diverso, una forma diversa di stupore, che non ha niente a che fare con la seduzione portentosa che i corpi celesti esercitavano sui nostri avi.

Viviamo ormai in un mondo diverso da quello in cui vivevano Cesare, Vespasiano, John Knox e Increase Mather, per citare alcuni nomi menzionati da Russell nei suoi pensieri oziosi sulle comete. Dobbiamo fare i conti con il fatto che il passato è una terra straniera in cui cose per noi indifferenti o quasi destavano stupore e meraviglia nei suoi abitanti. Un po’ come – per usare una metafora evolutiva – le cose che ci facevano esclamare “oh!” quando eravamo bambini sono appena degnate di uno sguardo di sufficienza da adulti.

L’homo faber ha inesorabilmente trasformato il mondo come mai in precedenza. I vantaggi di tale trasformazione sono immensi. Ma forse abbiamo anche perso qualcosa: qualcosa che, nel passato, ci faceva rimanere a bocca aperta e che oggi ci fa sbadigliare.

Sulle comete

Bertrand Russell


Se fossi una cometa, giudicherei gli uomini dell’epoca attuale una razza di degenerati.

Nei tempi antichi, il rispetto per le comete era universale e profondo. Una di esse preconizzò la morte di Cesare; un’altra, a quanto pare, presagì la prossima scomparsa dell’imperatore Vespasiano. Questi era un tipo determinato e sosteneva che la cometa doveva essere latrice di un significato diverso, dal momento che era dotata di chioma, mentre lui era calvo; ma erano in pochi a condividere il suo razionalismo estremo.

Il Venerabile Beda affermava che “le comete preannunciavano rivoluzioni di reami, pestilenze, guerre, tempeste o terribili canicole”. John Knox considerava le comete come prove della collera divina e altri protestanti scozzesi vedevano in esse “un avvertimento al Re affinché sterminasse i papisti”. L’America, e in particolare il New England, dedicarono alle comete una buona dose di attenzione.

Nel 1652, una cometa apparve proprio quando l’insigne sig. Cotton si ammalò, e scomparve quando morì. Appena dieci anni dopo, i malvagi abitanti di Boston furono messi in guardia da una cometa affinché si astenessero dalla “voluttuosità e dall’offesa delle buone creature di Dio attraverso l’abuso di alcolici e la ricercatezza nel vestire”.

Increase Mather, l’illustre teologo, era dell’opinione che le comete e le eclissi avevano annunciato la morte dei Presidenti di Harvard e dei Governatori della colonia, e istruì il suo gregge a pregare il Signore affinché “non portasse vie la stelle e le sostituisse con le comete”.

Questa superstizione venne gradualmente dissolvendosi grazie a Halley, il quale aveva scoperto che almeno una cometa aveva girato intorno al sole seguendo un’ellisse prestabilita, come un normale pianeta, e a Newton, il quale dimostrò che le comete obbediscono alla legge di gravità. Per qualche tempo, ai professori delle università più all’antica fu proibito di accennare a queste scoperte, ma, a lungo andare, non fu più possibile celare la verità.

Al giorno d’oggi, è quasi impossibile immaginare un mondo in cui le persone, di alta o bassa condizione sociale, di buona istruzione o ignoranti, si occupino di comete e siano terrorizzate dal loro apparire.

La maggior parte di noi non ha mai visto una cometa. Io ne ho viste due, ma ne sono rimasto molto meno turbato di quanto avessi creduto.

La causa del nostro mutato atteggiamento non è semplicemente il razionalismo, ma l’illuminazione artificiale. Nelle strade delle città moderne, il cielo notturno è invisibile; nei distretti rurali, ci spostiamo in automobili munite di fari potenti. Abbiamo cancellato la volta celeste, e solo qualche scienziato si interessa ancora di stelle e pianeti, meteoriti e comete.

Il mondo della vita quotidiana è opera dell’uomo in una misura inimmaginabile in epoche precedenti. In questo modo, abbiamo sia perso sia guadagnato qualcosa: l’uomo, sicuro del suo potere, sta diventano volgare, arrogante e un po’ insensato. Ma non credo che una cometa produrrebbe oggi quell’effetto morale salutare che produsse a Boston nel 1662; oggi avremmo bisogno di un rimedio più efficace.

da In Praise of Idleness and Other Essays (1935)

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Il pasticciaccio televisivo di Christopher Thomas Luciani

Ecco i fatti. C’è un ragazzo. Si chiama Christopher Thomas Luciani. Ha 16 anni. Altri due ragazzi, anch’essi di 16 anni, lo uccidono a Pescara all’interno di un parco pubblico. Come? Con 25 coltellate, pare più o meno equamente distribuite tra i due. Il motivo? Forse un debito di droga di 250 euro.

Particolare: Luciani è un ragazzo abbandonato dai genitori che viveva con la nonna.

Particolare: Luciani era fuggito da una comunità di Isernia dove era su disposizione dei giudici a seguito di una condanna per piccoli reati.

Particolare: Luciani era un ragazzo problematico.

Particolare: dei due assassini, uno è il figlio di un carabiniere, l’altro il figlio di un avvocato. Uno dei due aveva tentato il suicidio qualche tempo prima. Non sappiamo chi. Sono due ragazzi di famiglie perbene.

Particolare: dopo aver ucciso Luciani, i due assassini vanno in spiaggia “come se nulla fosse accaduto”, “sintomo evidente di distacco emotivo”

Particolare: i due ragazzi fermati non tradiscono emozioni durante il primo interrogatorio, “sintomo evidente di distacco emotivo”.

In una nota della questura si sottolinea l’incredibile disagio giovanile, la carenza di empatia emotiva e una palese incapacità di comprendere l’estremo disvalore delle azioni commesse. Il sindaco invita a riflettere sul ruolo della famiglia, della scuola e delle istituzioni.

Un delitto efferato e privo di senso.

Ecco qualche riflessione.

Ci sono i fatti e ci sono i racconti dei fatti. I fatti non esistono senza un racconto. L’unico racconto di cui disponiamo è quello offerto dai media. E il modo in cui i media raccontano l’episodio comunica immediatamente una sensazione di efferatezza agghiacciante. Un ragazzo di 16 anni che viene ucciso da due suoi coetanei dopo che questi gli hanno inflitto ben 25 coltellate sembra effettivamente qualcosa di aberrante, incomprensibile.

A ciò si aggiunge il fatto che gli assassini sono andati in spiaggia a divertirsi e a scattare selfies subito dopo il delitto, “come se nulla di grave fosse accaduto”.

I due ragazzi fermati, inoltre, non avrebbero tradito emozioni durante il primo interrogatorio.

Lo scandalo sembra aggravato dal fatto che dei due sedicenni, uno è il figlio di un carabiniere, l’altro il figlio di un avvocato, ossia di due persone perbene.

Altro motivo di indignazione il fatto che il movente sembra essere stato un debito di droga di 250 euro. Quelli che si chiamano futili motivi.

Tutto appare futilmente tragico in questa vicenda. Ma, privo di senso?

Ogni fatto, per quanto aberrante, strano, incredibile, è dotato di un senso. Possiamo non condividere questo senso, ma esiste. In questo caso, per comprenderlo, dovremmo conoscere il punto di vista dei protagonisti di questa storia, della vittima e dei suoi due assassini, oltre che degli altri ragazzi che erano con loro. Dovremmo sapere perché hanno ucciso; perché sono andati in spiaggia e si sono comportati come si sono comportati. Dovremmo sapere se davvero non hanno tradito emozioni quando sono stati interrogati e che cosa significano quei 250 euro, se davvero sono stati la causa dell’accoltellamento. Si giudica un episodio dal significato che noi gli attribuiamo. 250 euro per noi possono non essere un buon motivo per uccidere, per altri sì. Dovremmo sempre considerare il significato che l’episodio ha per i protagonisti.

In mancanza, il rischio è quello di imporre il nostro senso all’evento, le nostre categorie conoscitive, il nostro sistema di valori: un significato che ricaviamo dai pochi fatti di cronaca che conosciamo e dal modo in cui essi sono filtrati dai media.

Ad esempio: perché i due ragazzi sono andati in spiaggia subito dopo il delitto? Si tratta di un “sintomo evidente di distacco emotivo”? Oppure, non avevano un altro posto dove andare? Oppure intendevano liberarsi dell’arma del delitto? Sono andati in spiaggia perché sconvolti? Per meditare sulle proprie malefatte? Perché in preda al rimorso? Perché la spiaggia era il posto più vicino a dove è stato commesso il delitto? Le ipotesi interpretative sono tante. Quella mediatica è unica: “sintomo evidente di distacco emotivo”.

Perché? Perché due assassini che vanno in spiaggia dopo un delitto formano un ossimoro – da un lato, un evento tragico e cruento come un omicidio, dall’altro la spiaggia che il senso comune associa alla spensieratezza, alla gioia, al tempo libero, al divertimento – e ai media gli ossimori piacciono. Perché? Perché gli ossimori permettono di costruire mostri. E i mostri sono funzionali al racconto mediatico.

Noi conosciamo la vicenda di Christopher Thomas Luciani tramite i media e i media non hanno come interesse quello di informare, bensì quello di suscitare sensazioni, emozioni, indignazione, allarme e queste non sono amiche della verità.

I media raccolgono i fatti per scopi giornalistici, non scientifici e questo condiziona enormemente chi intende fornire una spiegazione non giornalistica.

Quindi, io direi che un significato, un senso, questa storia ce l’ha, solo non lo conosciamo. E se desideriamo scoprirlo dobbiamo diffidare dei racconti dei media.

A questo punto, se fossi un “criminologo televisivo” e qualcuno dei media mi chiedesse che cosa ne penso della faccenda, sarei tentato di dichiarare: “Non ho niente da dire perché non conosco della vicenda se non quello che dite voi media e quello che dite voi media ha scopi diversi dalla conoscenza scientifica. Sospendo il giudizio in attesa di sapere”.

Ma i criminologi televisivi non possono permettersi di dire una cosa del genere. Non sarebbero più invitati in televisione. Ne varrebbe della loro fama e dei loro onorari.  Non possono dire di non sapere. Anzi, diranno che sanno già tutto e distribuiranno le loro certezze con molta generosità. Basterà rivolgere loro qualche domanda e risponderanno, come da programma, indignandosi al momento giusto e chiamando in causa le giuste responsabilità.

E gli spettatori ringrazieranno perché vedranno compiaciuto il proprio buon senso. “Vedete?”, penseranno tra sé e sé, “Anche loro la pensano come noi. E sanno dirlo tanto bene”.

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L’ozio è il padre dei vizi?

Otia dant vitia, dicevano gli antichi. E antico era anche Catone il censore (234 a. C. – 149 a. C.) a cui viene attribuita la frase “l’ozio è il padre dei vizi”. Eppure, gli stessi antichi avevano un’idea ben diversa dalla nostra su che cosa dovesse intendersi per “ozio”.

Per i greci del passato, la parola σχολή (scholḗ), che oggi traduciamo con “ozio”, significava inizialmente “riposo”, “quiete”, “tempo libero”. Essa indicava, in particolare, il tempo da dedicare alla propria realizzazione, alla coltivazione di sé stessi e della conoscenza. Anche alla poesia, termine che, non a caso, rimanda al greco ποιέω “fare, produrre”. La poesia, infatti, era “produzione”, “lavoro”, “creazione”.

Nell’antica Roma, otium indicava un periodo di tempo libero dagli affari (negotia) pubblici o politici. I filosofi dell’epoca insegnavano il disprezzo per ogni lavoro grettamente utilitario (sordidae artes), “banausico” per usare un termine colto. Gli schiavi erano assegnati al lavoro necessario alla mera sussistenza, mentre i cittadini liberi si dedicavano all’attività politica e alla creazione culturale, uniche condotte ritenute non degradanti per gli esseri umani. I poeti cantavano l’ozio, dono degli dèi: «O Meliboee, deus nobis haec otia fecit» («O Melibeo, quest’ozio è il dono di un dio»)» (Virgilio, Bucoliche, Ecloga I). Lo stesso Catone distingueva tra otium, la migliore espressione delle virtù romane, inertia, assenza di ogni ars, e desidia, lo star sempre seduti, e si aspettava che la grandezza degli uomini risaltasse non solo dalle loro condotte durante i negotia, ma anche da quelle mostrate durante gli otia. Cicerone, da parte sua, giudicava sommamente produttivo il tempo trascorso in otium (Cicerone, De officiis).

Ma allora, se, un tempo, otium era un termine dalla connotazione eminentemente positiva, come è accaduto che oggi riteniamo l’ozio una condizione fortemente riprovevole e generatrice di vizi? Se diamo un’occhiata ai sinonimi del termine in un qualsiasi dizionario, troveremo con facilità che essi hanno per lo più una connotazione negativa: accidia, ignavia, inattività, inazione, inerzia, inoperosità, neghittosità, infingardaggine, scarso senso del dovere ecc. Chi o cosa è responsabile di questa trasmutazione di valori?

La svalutazione dell’ozio si deve, in parte, al cristianesimo. Siracide 33, 28-29 al riguardo è emblematico: «Fallo lavorare perché non stia in ozio, poiché l’ozio insegna molte cattiverie. Obbligalo al lavoro come gli conviene, e se non obbedisce, stringi i suoi ceppi». È vero. Qui si parla di schiavitù, ma il cristianesimo ha storicamente contrapposto il lavoro – soprattutto nella sua versione dura, faticosa, abbrutente – al non fare nulla. «Se uno non vuole lavorare neppure mangi» ribadisce 2 Tessalonicesi 3, 10. E, ancora prima, Genesi 3, 19 aveva sancito la condanna dell’uomo alla fatica a causa della sua disobbedienza: «Mangerai il pane con il sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da cui fosti tratto». L’ozio assume addirittura un nome peculiare per i cristiani. Diviene “accidia”, la quale viene definita come indolenza ad operare il bene, uno dei sette vizi capitali.

La negatività dell’ozio viene ribadita dalla riforma protestante, che fa del lavoro il banco di prova della benevolenza divina nei confronti dei prescelti dal Signore. Rimanendo in ambito cattolico, il XIX secolo non è più indulgente nei confronti dell’ozio. Anzi, papa Leone XIII (1810-1903) nella sua Rerum Novarum afferma la necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso:

Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell’umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l’impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello stato. Quanto al lavoro, l’uomo nello stato medesimo d’innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell’animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell’oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen 3,17). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l’uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell’uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v’è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo.

Ribadendo la “necessità” del lavoro nei confronti dell’inoperosità, ovvero dell’ozio, Leone XIII va incontro allo spirito del tempo. È, infatti, in epoca industriale, o meglio capitalistica, che la massima “l’ozio è il padre dei vizi” viene consacrata a supremo precetto di vita. Il lavoro diviene l’imperativo moderno, esaltato perfino nelle carte costituzionali (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”). L’attività produttiva foggia l’homo faber, modello di ogni condotta umana, e ogni comportamento che si sottrae alle leggi della produzione diviene sospetto e passibile di sanzione.  

L’etica capitalistica del lavoro fa della avversione all’ozio il suo segno di distinzione. Questo è ben visto solo quando è funzionale al recupero delle energie psico-fisiche necessarie a produrre e consumare di nuovo (“riproduzione della forza lavoro” avrebbe detto Marx) in un ciclo potenzialmente infinito di produzione e consumo. Oppure, coincide con il consumo stesso, come si vede dal fatto che la gente trascorre il proprio tempo libero nei centri commerciali dove le persone esistono in quanto consumatrici di merci e il tempo libero coincide pienamente con il tempo di consumo.

La società capitalistica conferisce onore e gloria all’attività umana solo se questa si esplica nell’ambito di ciò che i suoi membri definiscono produttivo. Ciò che si sottrae alle leggi della produzione e del consumo è ritenuto inutile, insignificante, irrilevante. La differenza non la fa l’attività in sé, ma le conseguenze in termini di profitto e guadagno. Se scrivo un libro e ottengo soldi e riconoscimenti, allora la mia attività sarà meritevole di considerazione. Se ciò non avverrà, potremo parlare, nel migliore dei casi, di hobby, di passatempo, termini che hanno acquisito nel tempo una connotazione negativa e quasi patetica.

Il contenuto della mia attività sarà indifferente purché generatrice di profitti: potrò dedicare la mia vita a mostrare le mie terga nude, a esibirmi in prestazioni canore discutibili, a insultare chiunque sui social o vantare i meriti di questo o quel prodotto per ottenere quanti più like possibili. Se tutte queste condotte saranno gratificate dal profitto, acquisiranno un alone sacro e saranno riconosciute, apprezzate e imitate. In caso contrario, diventeranno il segno di un imbarazzante fallimento.

Dietro il luogo comune “l’ozio è il padre dei vizi” si cela, allora, una verità misconosciuta: se l’ozio genera vizi, questi, nella nostra società capitalistica, coincidono con ciò che non è riducibile a lavoro imposto, a fatica alienante, a valore di scambio, a profitto. Vizi sono tutto ciò che è spontaneo, desiderato, privato, gratuito, che dà senso alla vita, a differenza del lavoro. Vizio è ciò che contraddice, negandola, l’idea di lavoro faticoso promosso dalla società in cui viviamo.

In questa luce, possiamo ben dire che secoli di miseria e di fatica sono stati sopportati grazie all’ideologia del lavoro come dovere e come riscatto (di cui “l’ozio è il padre dei vizi” rappresenta l’espressione sentenziosa) e alla condanna morale di ogni “scarto” rispetto a tale ideologia, disapprovato prontamente in quanto “vizio”.

Come afferma il filosofo Bertrand Russell (1872-1970), «il concetto del dovere [di lavorare], storicamente parlando, è stato un mezzo escogitato dagli uomini al potere per indurre altri uomini a vivere per l’interesse dei loro padroni anziché per il proprio. Naturalmente gli uomini al potere riescono a nascondere anche a sé stessi questo fatto, convincendosi che i loro interessi coincidono con gli interessi dell’umanità in senso lato» (Lafargue, Russell, 1992, p. 106).

E, allora, dovremmo forse riscoprire la verità del peana che Lafargue levava all’ozio:

O Ozio, abbi pietà della nostra lunga miseria! O Ozio, padre delle arti e delle nobili virtù, sii il balsamo delle angosce umane! (Lafargue, Russell, 1992, p. 92).

Se, per citare ancora Russell, «l’etica del lavoro è l’etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi» (Lafargue, Russell, 1992, p. 105), l’etica dell’ozio è l’etica della consapevolezza di sé, della creatività e della realizzazione dei propri desideri e capacità. In altre parole, l’etica della libertà.

E se le cose stanno così, educare all’ozio diviene uno dei compiti più impegnativi della nostra società. Come diceva il sociologo Domenico De Masi (1938-2023) qualche anno fa:

Educare all’ozio significa insegnare a scegliere un film, uno spettacolo teatrale, un libro. Insegnare a sbrigare le attività domestiche e a far da sé molte cose che fin qui abbiamo comprato. Insegnare la convivialità, l’introspezione, il gioco. Anche la pedagogia dell’ozio ha una sua etica, una sua estetica, una sua dinamica, delle sue tecniche. E tutto questo va insegnato (De Masi, 1997, p. 141).

Tutto questo, e altro ancora, è l’ozio. Altro che “padre dei vizi”!

Riferimenti

De Masi, D., 1997, Ozio creativo, Ediesse, Roma.

Lafargue, P., Russell, B., 1992, Economia dell’ozio, Olivares, Milano.

Natoli, S., 1999, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano.

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La fallacia del “Uno studio ha scoperto…”

È stato il giornalista Martin Cothran di Memoria Press nel 2019 a presentare la fallacia denominata “Uno studio ha scoperto…” (A study has found…), probabilmente uno degli strumenti retorici e persuasivi più efficaci degli ultimi cento anni.

È sufficiente che una qualsiasi argomentazione sia introdotta dalla magica frase “Uno studio ha scoperto…” che, improvvisamente, essa sarà dotata di una solennità quasi religiosa e di uno status oracolare, non molto dissimilmente da quanto accadeva nel Medioevo quando la frase “Lo dice la Bibbia” era in grado di conferire credibilità a qualsiasi affermazione.

Se, da un lato, ciò testimonia la forza che la scienza ha acquisito negli ultimi secoli rispetto a forme errate di sapere, è altrettanto vero che citare un singolo studio per dimostrare la verità di un enunciato è certamente discutibile. E questo, secondo Cothran, per almeno due motivi.

Il primo ha a che vedere con la natura intrinsecamente provvisoria della scienza e del ragionamento scientifico. Le conclusioni di una ricerca possono essere rapidamente superate dagli esiti di una ricerca successiva per cui non bisognerebbe mai attribuire un valore definitivo a quanto riferito da un singolo studio.

In secondo luogo, come fa notare lo scrittore Richard Harris a proposito della ricerca in biomedicina,

nella letteratura scientifica vengono pubblicati circa un milione di studi biomedici. E molti di questi sono semplicemente errati. Escludiamo l’afflato divino, le statistiche pretenziose e il processo di revisione tra pari, che pure dovrebbe consentire di scartare gli studi più traballanti e inadeguati. Molte di essi semplicemente non reggono a un esame accurato…. A volte lo scienziato fa sì inconsciamente che i dati raccontino una storia che in realtà non è vera. Di tanto in tanto, si verificano vere e proprie frodi. Ma gran parte di ciò che viene pubblicato è sbagliato.

A ciò si aggiunge quella che potremmo definire la “crisi della replicabilità”: il fatto, cioè, che in molti casi – MOLTI CASI – non si riescono a riprodurre gli stessi risultati. Un problema enorme per la credibilità della scienza perché la replicabilità rappresenta una delle colonne su cui si fonda la possibilità stessa del sapere scientifico. Cothran cita il caso di 53 studi che “avevano scoperto” nuove promettenti sostanze in grado di cambiare la storia della medicina. Di questi fu possibile replicarne solo sei.

Dobbiamo poi considerare che, pur volendo replicare uno studio, i ricercatori hanno spesso difficoltà a recuperare i dati grezzi della ricerca originale, oppure trovano scarsa collaborazione o addirittura resistenza da parte degli autori dello studio in questione.

Molti studi, poi, sono caratterizzati da sciatteria, tendenza a cercare scorciatoie, ignoranza delle procedure corrette, incentivi compromettenti, imbrogli e pura apatia. Oppure, hanno natura puramente esplorativa, presentano campioni poco numerosi e poco rappresentativi, non comprendono gruppi di controllo, si basano su ipotesi mal formulate

Il paradosso è che, anche se non è possibile replicare gli esiti di una ricerca, accade spesso che essa continui a essere citata quasi contenesse una verità assoluta, contribuendo così alla diffusione di informazioni false.

Nel campo delle scienze umane, questi problemi possono essere anche più gravi. Cothran cita una metaricerca del 2014 che ha rilevato che su 164.589 studi pubblicati in campo educativo, appena 221 erano repliche, e di queste solo il 67,4% avevano avuto successo. Tra queste, il 48,2% (quasi la metà) erano state condotte dagli stessi ricercatori dello studio originario.

Tutto questo di solito non viene detto nemmeno dai divulgatori scientifici i quali sono i primi, spesso, ad accentuare gli elementi più “notiziabili” di uno studio (“Scoperto un nuovo medicinale contro il cancro…”) a scapito di quelli più fragili (“I risultati sono in attesa di conferma”, “La ricerca è stata condotta su un campione di 10 persone”).

Insomma, quando leggiamo che “uno studio ha scoperto…” non dovremmo abbassare la guardia e fidarci ciecamente di ciò che ci viene detto. Gli studi sono fallibili, non oracoli divini. Del resto, da tempo abbiamo messo in discussione anche questi. Non rimpiazziamoli con nuovi oracoli.

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Superstizione e società

Nel senso comune, è forte la tentazione di imputare la superstiziosità a caratteristiche puramente individuali. Così, diciamo che “X è superstizioso” perché ha toccato ferro quando un gatto nero gli ha attraversato la strada e raramente ci soffermiamo sulle determinanti sociali della sua condotta. In altre parole, per gli individui ordinari, non è immediato abbracciare un’ottica sociologica sulla superstizione.  

Eppure, vari studi dimostrano che diversi fattori sociali predicono il livello di superstiziosità dei gruppi umani. Gli psicologi statunitensi Vernon Padgett e Dale Jorgenson, ad esempio, riferiscono, in un articolo del 1982, che le crisi economiche (misurate in termini di riduzione dei salari, elevati tassi di disoccupazione, minore produttività industriale) accrescono la tendenza delle persone a indulgere in condotte superstiziose.

Analizzando ciò che accadde in Germania nel periodo tra le due guerre mondiali 1918-1940 – periodo caratterizzato da grande precarietà economica e turbolenza politica – i due autori concludono che la crescente inflazione e l’instabilità governativa del periodo contribuirono notevolmente all’aumento delle condotte superstiziose, come testimonia la pubblicazione nel periodo considerato di un maggior numero di articoli dedicati all’astrologia, al misticismo e al settarismo religioso.

L’articolo dimostra empiricamente la verità dell’assunto secondo cui le percezioni e i giudizi degli individui cambiano profondamente in tempo di crisi. Le persone sono più propense a credere nel destino, nella sfortuna, nel malocchio, nelle predizioni di maghi e sensitivi e in altri fattori non razionali dell’esistenza.

Studi come quelli di Padgett e Jorgenson mostrano la parzialità delle convinzioni che vedono nella superstiziosità una caratteristica connaturata quasi in maniera ontologica a singole individualità. Determinate condizioni sociali e situazionali accrescono la probabilità di sviluppare atteggiamenti e comportamenti superstiziosi; atteggiamenti e comportamenti che rappresentano spesso l’unico baluardo psichico e sociale per fronteggiare le minacce provenienti dai periodi di squilibrio politico ed economico.

Per saperne di più sui fattori sociali e psicologici che determinano la superstiziosità, rimando al mio Aloni, stregoni e superstizioni.

Fonte:

Padgett, V. R., Jorgenson, D. O., 1982, “Superstition and Economic Threat: Germany, 1918-1940”, Personality and Social Psychology Bulletin, vol. 8, n. 4, pp. 736-741.

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Esistono emozioni “autentiche”?

Le emozioni che proviamo sono davvero “autentiche” e “spontanee”? Quando proviamo un’emozione, lo facciamo in piena libertà e autonomia? Possiamo dire che le emozioni scaturiscono solo e unicamente dai recessi più intimi del nostro essere?

Secondo la sociologia delle emozioni, la risposta è un sonoro “no”. Ogni società, infatti, impone ai suoi membri “regole del sentire” (feeling rules) e “regole di espressione” (display rules). Le prime ci dicono che cosa provare in ogni data situazione sociale. Le seconde ci dicono come e se esprimere le emozioni oppure modificarle con altre più adeguate alle caratteristiche del contesto in cui agiamo. Le emozioni, dunque, non scaturiscono da un semplice processo fisiologico. La società plasma ogni nostro sentire e, perfino, ogni nostro modo di manifestare il nostro sentire.

Una delle conseguenze di tali assunti sociologici è che non dobbiamo mai compiere l’errore di associare il concetto di verità a una manifestazione emotiva. Non possiamo parlare di emozioni vere o autentiche perché il nostro sentire è sempre subordinato a regole del sentire e regole di espressione. Perfino quando crediamo di essere trasportati da un sentimento estremamente intenso, come l’amore “più sincero”, in realtà paghiamo tributo a norme che la società ci impone fin dalla nascita.

Ci sono poi situazioni in cui gli individui sono chiamati, per ragioni professionali o di altro genere, a compiere un vero e proprio “lavoro emozionale” (emotional labour) ossia uno sforzo sulla messa in forma delle proprie emozioni. Si pensi a un’infermiera dell’ospedale chiamata a negare al parente di un ricoverato l’accesso a un reparto in orario non consentito, esibendo un sorriso di comprensione. Oppure a un’assistente di volo tenuta, per contratto, a manifestare sempre una calda e positiva cordialità ai passeggeri dell’aereo su cui presta servizio. Nei due casi citati, l’infermiera e l’assistente di volo non possono non essere cortesi nei confronti dei loro rispettivi “clienti” poiché rischierebbero denunce e richiami.

Stesso discorso riguarda i politici di professione, che hanno “l’obbligo” di mettere in scena le forme di manifestazione emotiva più adeguate al contesto in cui si trovano per ottenere voti e consenso. Più ciò avviene in maniera intensa e coinvolgente, più comunicheranno ai loro interlocutori una sensazione di autenticità. Per non parlare di attori di cinema e teatro e protagonisti di talk show.  L’errore più grande è quello di pensare che questi soggetti esprimano autenticamente le proprie emozioni durante le loro attività o che esibiscano le stesse forme di manifestazione emotiva una volta usciti dal ruolo.

La tentazione di attribuire agli altri stati emotivi che essi sono chiamati a mostrare in ragione delle loro attività è fortissima e genera equivoci infiniti. Ad esempio, ci si meraviglia che l’attore dal sorriso caldo e smagliante sullo schermo sia denunciato dalla moglie per maltrattamenti. O che il politico così coinvolgente in campagna elettorale sia arrestato per corruzione.

La verità è che nessuna manifestazione emotiva è, di per sé, autentica nel senso di puramente individuale. La società ci condiziona perfino quando ridiamo, piangiamo, ci sentiamo contenti o tristi, proviamo rabbia o gioia, sofferenza o felicità. E l’intensità dell’emozione esibita non dovrebbe mai essere assunta come indicatrice di stati d’animo genuini, per quanto in buona fede essi siano manifestati.

È un duro colpo per chi crede nella bontà dei sentimenti. Ma anche questi – ci insegna la sociologia – sono mediati dall’influenza della società.

Riferimento:

Cerulo, M., 2018, Sociologia delle emozioni, Il Mulino, Bologna, cap. 5 e pp. 180-185.

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Numeri come fatti sociali

I numeri caratterizzano e definiscono le nostre vite come mai in passato. La quantificazione dei fenomeni sociali – dall’istruzione alla povertà, dal lavoro al tempo libero, dalla sessualità alle attività amministrative – è talmente pervasiva da essere data per scontata. Eppure, avvertono i sociologi Espeland e Stevens nel loro pioneristico “A Sociology of Quantification”, la quantificazione, intesa come la produzione e la comunicazione di numeri, e le sue conseguenze sull’organizzazione e sulla vita moderna, è stata raramente esaminata da un punto di vista sociologico.

Se l’attenzione (e la preoccupazione) per l’accuratezza dei numeri prodotti è un aspetto costante di ogni organizzazione che si occupi di produrre cifre, minore attenzione è volta alle implicazioni sociali di tale “numerificazione” della vita quotidiana.

Si pensi, ad esempio, alla demografia. Se essa ha il compito di fornire una rappresentazione quanto più precisa possibile delle dimensioni delle popolazioni nazionali, una delle sue conseguenze è quella di creare categorie ad hoc di cittadini, cui viene spesso attribuito uno status ontologico e che sono oggetto costante di politiche di vario tipo. Le statistiche fornite dalla demografia non servono solo a “contare” i cittadini, ma ad assumere provvedimenti nei loro riguardi, a confrontare categorie con categorie, a individuare bacini elettorali e target pubblicitari ecc.

I numeri possono, inoltre, essere utilizzati come segni distintivi (marks) e come strumenti di misurazione per produrre valutazioni di ogni tipo. Si pensi ai prezzi delle merci, che servono a valutare il valore di beni e servizi, al conteggio dei voti, che consente la vittoria ad alcuni schieramenti politici a scapito di altri, al sistema dei voti scolastici, che consente di valutare il rendimento degli studenti. In tutti questi casi, una delle conseguenze più diffuse è la cristallizzazione, se non la feticizzazione, del numero a scapito di ciò che il numero dovrebbe misurare.

Un esempio su tutti è fornito proprio dal sistema dei voti scolastici. Da un lato, essi dovrebbero consentire di valutare in maniera “oggettiva” l’apprendimento e la cultura degli studenti. Tutti sanno, però, che essi finiscono con il diventare un obiettivo in sé con la conseguenza paradossale che non importa ciò che si è effettivamente imparato, ma il voto raggiunto, spesso espressione della conformità a procedure didattiche prestabilite o dell’adesione a programmi stabiliti dal ministero.

Oppure, si pensi al conteggio dei like ricevuti sui social, ritenuto un indicatore di qualità, ma, in realtà, indice di popolarità o di uso sapiente dei social stessi.

Quando il numero diviene fine a se stesso, si genera una forma di patologia che il sociologo americano Otis Dudley Duncan, in relazione alla statistica, definisce “statisticismo”, ossia:

l’idea che numero sia sinonimo di ricerca, l’ingenua fede che la statistica sia uno strumento completo o sufficiente per fare metodologia scientifica, la superstizione che esistano formule statistiche per valutare cose come i meriti relativi di diverse teorie sostanziali o l’“importanza” delle cause di una “variabile dipendente”; e l’illusione che la scomposizione delle covariazioni di un insieme arbitrario e casuale di variabili possa in qualche modo giustificare non solo un “modello causale” ma anche un “modello di misurazione (Duncan 1984, Notes on Social Measurement: Historical and Critical (New York, Russell Sage Foundation, p. 226).

Espeland e Stevens pongono in risalto anche un altro aspetto. La produzione e la comunicazione di numeri richiede l’istituzione di grossi apparati burocratici e organizzativi composti da personale adeguatamente formato, il cui lavoro è interamente dedicato a questo scopo. La quantificazione richiede, dunque, il possesso di precise competenze numeriche, acquisite, solitamente, nell’ambito di precisi percorsi didattici, e forme di cooperazione e controllo non dissimili da quelle che si hanno in altre organizzazioni.

I numeri forniscono anche una forma di legittimazione a scelte di ogni tipo – politiche, didattiche, culturali, economiche ecc. – in un modo che è oggi considerato assolutamente imprescindibile. Chiunque si rispetti ha bisogno di appoggiare argomentazioni, opinioni e tesi su statistiche, calcoli, grafici, forma di “garanzia retorica” paragonabile alle “garanzie” che, qualche tempo fa, fornivano i testi sacri della religione. Tale legittimazione conferisce ai numeri una forza persuasiva unica che demagoghi e pubblicitari conoscono bene.

I numeri forniscono anche un linguaggio comune per porre a confronto strategie, tesi, opinioni che non potrebbero che essere espressi in forma “qualitativa” e, quindi, non comparabile. Ad esempio, la quantificazione consente di conformarsi a standard predefiniti che consentono di pervenire agevolmente a valutazioni di ogni genere.

Le misurazioni numeriche agiscono anche sul modo in cui gli individui pensano e si comportano. Trasformando qualità in quantità, creano nuovi “oggetti” e nuove relazioni tra oggetti. Quando, ad esempio, Kinsey nel 1948 affermò che il 37% dei maschi bianchi da lui intervistati avevano avuto almeno una esperienza omosessuale nella loro vita “creò” una nuova categoria di individui che influenzò sensibilmente l’evoluzione dei moderni movimenti per i diritti delle persone omosessuali, fornendo una legittimazione statistica alle richieste degli stessi.

I numeri, infatti, tendono a creare categorie di individui dai confini più nitidi e meno incerti di quanto accada nella realtà, per cui sfumature e processi graduali acquistano improvvisamente una nettezza che prima non possedevano. Allo stesso tempo, tale nettezza esercita una funzione “disciplinante” nei riguardi dei membri di tali categorie, conferendo loro tratti distintivi precisi e richiedendo loro di conformarsi a tali tratti in maniera ordinata e coerente, pena l’accusa di devianza.

Come si vede i numeri sono più di un semplice strumento di individuazione o misurazione. Essi hanno implicazioni sociali notevolissime, che spesso comportano conseguenze di assoluto rilievo di cui non abbiamo consapevolezza. Di qui l’utilità di una sociologia della quantificazione che, al momento, sta compiendo solo i primi passi.

Fonte:

Espeland, W. N., Stevens, M. L., 2008, “A Sociology of Quantification”, European Journal of Sociology, vol. 49, n. 3, pp. 401-436.

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