L’ideologia del dominio nell’antica Roma

L’idea di stato sociale, sebbene relativamente recente, risalendo alla seconda metà del XIX secolo, è talmente radicata in noi che risulta quasi inconcepibile immaginare che siano esistite epoche in cui termini come “protezione dai rischi”, “assistenza”, “sicurezza della comunità”, “benessere dei cittadini”, “politiche sociali”, “qualità della vita” ecc. non avevano alcun senso o quasi.

Nell’antica Roma, ad esempio, era del tutto normale che i più forti dominassero sui più deboli. Chi era potente fisicamente, socialmente o economicamente era chiamato a dominare sui deboli, gli analfabeti e i poveri. Alcuni studi hanno dimostrato che quasi il 40% della popolazione urbana dell’Impero Romano viveva ai limiti della soglia di povertà, definita come la disponibilità di risorse sufficienti a fornire cibo, vestiti e riparo per la mera sopravvivenza.

Un altro 30% era indigente. Nonostante ciò nessuno si poneva alcun problema di natura etica, né alcun imperativo morale di provvedere ai bisognosi. Non solo. Anche il concetto di “elemosina” aveva un significato completamente diverso. Nel mondo romano, quando i ricchi donavano il loro denaro, non lo facevano quasi mai con lo scopo di aiutare i bisognosi. L’obiettivo era di aiutare i membri della propria classe sociale – ad esempio, parenti in difficoltà – o finanziare progetti per la comunità come la costruzione di edifici o il finanziamento di spettacoli pubblici con tutti gli onori che ne conseguivano.

Queste elargizioni potevano talvolta aiutare i poveri, che potevano utilizzare gli edifici pubblici e assistere ad alcuni spettacoli gladiatori. Ma non era questo lo scopo per cui le élite finanziavano tali progetti. Si trattava di promuovere la propria immagine, un guadagno tutto personale quindi. Se le elargizioni avevano per destinatari i meno abbienti era per comprare il loro voto. 

L’ideologia del dominio trovava applicazione anche all’interno delle mura domestiche. Gli uomini “dominavano” sui bambini, su cui avevano potere di vita e di morte, e sulle donne nella vita quotidiana, in ambito finanziario e nella sfera sessuale. I padroni, inoltre, detenevano diritti illimitati nei confronti dei propri schiavi, anche in ambito sessuale. Non era in alcun modo motivo di vergogna che un padrone maschio facesse sesso con uno schiavo maschio, né si sosteneva fosse un atto “innaturale”. Al contrario. La dominazione era considerata un dato di natura.

Studiare il passato non serve solo a conoscere ciò che è accaduto prima che noi nascessimo, ma anche a capire che gli “antichi” vedevano il mondo in modo diverso dal nostro.

Ciò ha anche un’altra conseguenza. Non dobbiamo dare per scontato che la nostra impalcatura storico-sociale sia destinata di per sé a durare per sempre. Le nostre conquiste devono essere sostenute ogni giorno se vogliamo che siano sempre con noi. Considerarle “banali” e “ovvie” è il primo passo verso un possibile ritorno a strutture sociali e mentali del passato.

Fonte

Bart D. Ehrman, 2024, Armageddon. Che cosa dice davvero la Bibbia sulla fine del mondo, Carocci, Roma, pp. 168-169.

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Analogie tra calcio e religione

In un post precedente, avevo fatto notare come calcio e religione fossero due dimensioni apparentemente distanti anni luce, ma accomunate dalla medesima propensione irrazionale ad abbracciare la parzialità, facendola passare per verità assoluta.

Le analogie tra i due “fatti sociali” non finiscono qui. È anzi possibile proporre una sorta di mappa di corrispondenze biunivoche che dimostra in maniera lapalissiana come le due dimensioni si intreccino fra loro. Questo perché, come dice Gaetano Bonetta in un libro di qualche anno fa – Il secolo dei ludi, Lancillotto e Nausica, Roma, 2000 – “la partita di calcio è pure il momento di una ritualità secolarizzata che si nutre di una forte trasposizione simbolica delle tecniche cultuali delle religioni ebraico-cristiane” (p. 116).

Proviamo a identificare alcune di queste analogie.

Il calendario del campionato e delle coppe europee è modellato su quello liturgico: prevede celebrazioni fisse, ricorrenze, date di nascita e di morte (di inizio e di fine), “festività” a cui è d’obbligo partecipare per “santificare” la propria vita di tifoso (i match clou).

Gli arbitri officiano il rito calcistico come i sacerdoti officiano la messa della domenica. Indossano “paramenti” diversi dagli altri protagonisti, si fanno garanti dell’ordinato sviluppo dell’evento calcistico, infliggono sanzioni ai trasgressori del regolamento come un sacerdote infligge riparazioni a chi si confessa. Il triplice fischio tramite cui l’arbitro sancisce la fine dell’incontro è paragonabile alla formula “Ite missa est” con cui il sacerdote conclude la messa.

Lo stadio è ovviamente un tempio di culto, novella chiesa con tanto di coro (dei tifosi), deambulatorio (il corridoio che introduce i calciatori in campo) e altare (il campo stesso). È qui che si esprime e si celebra il verbo calcistico, così come quello di dio si celebra in chiesa.

La riunione dei tifosi è una sorta di incontro ecclesiale in cui sono stabilite modalità di azione, slogan da cantare, gesti da eseguire. L’organizzazione dei club di tifosi è assimilabile a un’articolazione ecclesiastica.

Il tifo è paragonabile a una forma di preghiera: è caratterizzato spesso da formule fisse, gestualità rituali, inni, invocazioni, richieste alla squadra di “vincere per noi”, moniti morali (“Vergognatevi!” rivolto ai propri beniamini quando questi non ottengono i risultati sperati). Il tifoso, inoltre, è un “fedelissimo” che si identifica pienamente con la propria squadra come il fedele religioso si identifica con il proprio dio.

Le trasferte calcistiche ricordano indubbiamente i pellegrinaggi: loro meta è il “santuario stadiale” e il cammino prevede tappe e percorsi anche molto lunghi. Più è lungo il percorso, più il tifoso acquista meriti, dimostrando la propria inconfutabile dedizione. Il tifoso in trasferta è il “vero” tifoso, così come chi prende parte a pellegrinaggi è un “vero” credente.

Le regole del calcio sono leggi dogmatiche da osservare con zelo pedissequo. Al più si possono interpretare, e di fatto sono interpretate da arbitri, tifosi e giornalisti, ma non mettere in discussione. Anche perché sono regole costitutive, ossia dal loro rispetto dipende la stessa possibilità dell’evento “incontro calcistico”. Allo stesso modo, la celebrazione del rituale liturgico dipende dal rispetto di precise regole a cui il sacerdote e i fedeli si attengono scrupolosamente.

Il VAR appare come un deus ex machina, in grado di decidere l’interpretazione di un episodio calcistico contestato “dall’alto” del suo vantaggio tecnologico, così come, nella Bibbia, Dio interviene spesso a orientare la piega di un determinato evento. Il VAR è assimilabile anche a un oracolo dalle cui labbra arbitri, calciatori e tifosi dipendono per il loro futuro immediato.

Infine, i commenti agli incontri calcistici di giornalisti ed esperti del settore sono paragonabili alle glosse a cui sacerdoti e teologi ricorrono a margine di testi della tradizione biblica e che spesso danno origine ad accesi dibattiti, se non a veri e propri scontri.

Potremmo continuare.

La natura religiosa del calcio – uno dei culti laici di questi tempi – è stata sottolineata da tanti. Qualcuno teme che essa soddisfi a tal punto l’anelito religioso degli uomini da aver saturato quasi interamente questa importante dimensione umana.

A tal punto che pare legittimo chiedersi: E se la religione divenisse col tempo un succedaneo simbolico del calcio?

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Perché la Bibbia proibisce i tatuaggi?

Oggigiorno, i tatuaggi sono diffusi in ampi strati della popolazione, soprattutto tra i giovani e le giovani. Il tatuaggio è universalmente riconosciuto come una forma di espressione avente significato comunicativo, estetico, narrativo, biografico ecc. Per molti, è una modalità di incidere sul proprio corpo messaggi destinati all’eternità, di raccontare qualcosa di noi in maniera imperitura, di distinguersi dalla massa (anche se il tatuaggio è già un fenomeno di massa). Eppure, non molto tempo fa, i tatuaggi erano appannaggio di detenuti, marinai e altre categorie marginali: un vero e proprio contrassegno di condotta deviante e, in quanto tale, vituperato dai benpensanti.

L’atteggiamento negativo nei confronti dei tatuaggi deve molto anche all’interdetto contenuto in Levitico 19, 28, “Non vi farete incisioni sul corpo per un defunto, né vi farete segni. Io sono il Signore”.

Perché Levitico proibiva i tatuaggi? La risposta è nel versetto appena citato. Marchiare la propria pelle in segno di lutto significava legarsi a un determinato culto dei morti giudicato contrario alla fede nel Dio d’Israele.

Si ritiene, inoltre che i tatuaggi potessero essere associati a pratiche magiche e superstiziose, a contenuti eversivi ed esoterici. Secondo altri esegeti, il tabù riguardava esclusivamente i tatuaggi eseguiti con le ceneri dei familiari trapassati.

A parere di John Huehnergard e Harold Liebowitz, invece, la spiegazione della proibizione dei tatuaggi potrebbe avere un’origine diversa. Nell’antica Mesopotamia, infatti, la pelle degli schiavi veniva spesso marchiata. I prigionieri degli egizi, ad esempio, erano segnati con il nome di un dio e caratterizzati, così, come oggetti appartenenti al sacerdote o al faraone.

Per questo motivo, considerato il ruolo centrale della fuga dalla schiavitù in Egitto nell’antico diritto ebraico, la Torah mise al bando i tatuaggi in quanto “simboli di servitù”. Comunque, un altro passaggio – Isaia 44, 5 “Questi dirà: Io appartengo al Signore, quegli si chiamerà Giacobbe; altri scriverà sulla mano: Del Signore, e verrà designato con il nome di Israele” – sembra consentire il tatuaggio come segno di sottomissione al Signore. È probabile, dunque, che il tatuaggio fosse permesso quando non era simbolo di schiavitù o di idolatria pagana.

Qualunque sia la spiegazione – è probabile che ce ne sia più di una in relazione a tempi e luoghi diversi – una cosa è certa: il tabù del tatuaggio ha a che fare con situazioni storiche e contingenti precise per cui non è possibile estenderlo a proibizione universale, come fanno alcuni sacerdoti contemporanei.

A ben pensarci, gli stessi Dieci Comandamenti, oggi assunti a leggi universali, valide al di là di tempi e luoghi, scaturiscono da situazioni storiche e contingenti.

È questa una delle curiose forme evolutive dei principi morali: nati in contesti determinati e circoscritti, sopravvivono come norme generalizzate fino a che non sono più avvertiti come specifici di un popolo, ma diventano validi per ogni popolo e ogni tempo.

Fonte:

John Huehnergard e Harold Liebowitz, 2013, “The Biblical Prohibition Against Tattooing”, Vetus Testamentum, vol. 63, Fasc. 1, pp. 59-77.

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Jonathan Swift e i falsi testimoni

On False Witness (1715) dello scrittore e pastore irlandese Jonathan Swift (1667-1745) non è un semplice sermone, ricco di citazioni bibliche, sulla piaga dei falsi testimoni. Non è riducibile nemmeno alla denuncia di una situazione politica contingente – quella dell’Inghilterra che viveva Swift – caratterizzata dall’ascesa del re protestante Giorgio I (1660-1727), della dinastia degli Hannover, e dall’accesa, strenua contrapposizione tra i potenti Whigs, destinati a dominare la vita politica inglese per quasi mezzo secolo a partire dal 1715, data di pubblicazione del sermone, e i Tories.

On False Witness è molto di più. In esso viene tratteggiata, in maniera estremamente meticolosa, una vera e propria tipologia della figura del delatore. Vi è il falso testimone classico, colui, cioè, che diffonde intenzionalmente falsità per rovinare il prossimo. Vi è colui che mescola falso e vero, verità e menzogne parziali, in modo tale fa far incriminare la vittima senza ingannare del tutto.

Vi è il tipo che “incornicia” le parole altrui per farle apparire sediziose o cospiratorie e quello che tenta i propri simili per tradirli vigliaccamente. Ancora, vi è chi testimonia contro il prossimo per risentimento o vendetta personali, senza porsi alcun fine elevato.

Vi sono coloro che della delazione fanno un mestiere nella speranza di un favore o di una ricompensa. Infine, ci sono “coloro che provocano pena e sofferenza con accuse che non hanno alcuna utilità per il pubblico, né hanno altra finalità se non provocare afflizione”.

La tipologia abbozzata da Swift ricorda da vicino le osservazioni di semiologi e massmediologi contemporanei sulle cosiddette fake news e sulle varie forme di distorsione informativa che contraddistinguono i nostri tempi complessi, attraversati da opposizioni e conflitti non meno pericolosi di quelli che Swift subiva ai suoi tempi.

Per chi volesse conoscere questo prezioso scritto dell’autore dei Viaggi di Gulliver, segnalo che è qui possibile leggere la mia traduzione del breve testo del sermone con una introduzione che riprende e sviluppa i temi accennati in questo post.

Buona lettura e… guardatevi dai falsi testimoni.

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La legge di Goodhart

Risale al 1975, la “legge di Goodhart” che viene oggi formulata nel modo seguente: “When a measure becomes a target, it ceases to be a good measure”, ossia “Quando una misura si trasforma in un obiettivo, smette di essere una buona misura”. Charles Goodhart (1936) è un economista britannico, noto per le sue critiche, nemmeno tanto velate, alle scelte del governo Thatcher.

In un articolo intitolato “Problems of Monetary Management: The U.K. Experience”, egli scrive, tra l’altro: “Any observed statistical regularity will tend to collapse once pressure is placed upon it for control purposes”, ovvero “Qualsiasi regolarità statistica osservata tenderà a venire meno una volta che su di essa venga esercitata pressione a fini di controllo”. Con questa frase, Goodhart intendeva criticare le politiche monetarie basate sul raggiungimento di obiettivi metrici, ma la fortuna della legge si deve soprattutto alla formulazione prima citata, la cui interpretazione si è estesa ben al di là del settore dell’economia.

Il significato centrale della legge, al di fuori del campo economico, è che quando ci si pone un obiettivo legato a un parametro metrico, questo diviene spesso fine a sé stesso, tradendo lo scopo principale per cui era stato ideato.

Questo è particolarmente vero nella nostra epoca “quantofrenica” (Pitirim Sorokin), dominata dalla tendenza a ridurre tutto a misurazione, come se ciò garantisse automaticamente la verità.

Spesso non ci si rende conto che la misura diviene un feticcio da venerare di per sé, dimenticando il motivo per cui era stata concepita, con conseguenze paradossali. Il rischio principale è che la misura può assorbire interamente il concetto di cui è misura fino a coincidere con esso. In questo modo, il concetto si immiserisce, rimanendo prigioniero di un grossolano equivoco di cui però la contemporaneità sembra essere paciosamente orgogliosa.

Facciamo qualche esempio.

Nel sistema scolastico, il voto – inteso quale misura del livello di conoscenza raggiunto dallo studente – è talmente centrale che l’unica cosa che conta davvero è il conseguimento di una buona “valutazione numerica”, con il risultato che non è nemmeno rilevante quale livello di cultura sia stato effettivamente raggiunto dal discente. Un ottimo studente può essere semplicemente chi riesce a trovare il giusto metodo per raggiungere una buona votazione. Tutto il resto è pressoché insignificante dalla prospettiva del sistema

In psicologia, il concetto di intelligenza viene spesso ridotto a ciò che viene misurato dal test di intelligenza, che per definizione ha il compito di ridurre a numero i complessi contenuti del concetto. La conseguenza è che alcune dimensioni, pur rilevanti, del costrutto vengono “messe a tacere” a vantaggio di altre, sulla base di criteri discutibili di valutazione.

In ambito universitario, la carriera di ricercatori e professori viene valutata in base al numero di pubblicazioni prodotte. Questo fa sì che conti più il numero delle pubblicazioni che la loro qualità, oltre ad altri fattori metrici, con effetti non sempre condivisibili sulla qualità della ricerca. Il numero di pubblicazioni cessa, dunque, di essere un buon indicatore del lavoro del ricercatore nel momento stesso in cui viene elevato a obiettivo da raggiungere.

In ambito sessuale, infine, è ancora usuale “misurare” la virilità sulla base del numero di orgasmi avuti o delle donne “possedute”: una valutazione meramente quantitativa che sommerge ogni altro possibile approccio alla sessualità.

Viviamo in un’epoca governata, anche ideologicamente, da misure e parametri numerici, indicatori per noi sinonimi di scientificità e, quindi, di verità. Non ci rendiamo così conto di vivere in un universo finzionale in cui i costrutti da noi concepiti sostituiscono la realtà dandoci l’illusione di essere più reali di essa.

 

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La Sacra Corona

Nella nostra società secolarizzata e desacralizzata, il rosario è oggi considerato dai più una preghiera per bigotte e ottuagenarie, un patetico cascame di una religiosità destinata ad estinguersi, un’inutile giaculatoria di un tempo che fu, una devozione relegata a un numero trascurabile di imperterriti fanatici cattolici.

Eppure, il rosario è molto più di questo. La sua storia sorprendente comprende una narrazione mitologica, leggende varie, falsi storici acclarati, verità celate e inaccettabili, colpi di scena degni di un romanzo, curiosità inestimabili, equivoci tragici e ridicoli, eroi putativi ed eroi autentici, conflitti spirituali e materiali, difensori a spada tratta e oppositori virulenti.

Il rosario è un “oggetto culturale” interessante anche da un punto di vista sociologico e psicologico.  Ad esso, ancora oggi, sono attribuiti cambiamenti di fede, guarigioni, successi militari, miracoli di ogni genere. In nome del rosario sono istituiti santuari e confraternite. Il rosario è presente in molte raffigurazioni pittoriche e artistiche. Lo troviamo nella letteratura, nella musica, nel cinema e nella cultura pop (Madonna e Lady Gaga, ad esempio). La sua presenza non è affatto limitata all’ambito religioso.

Per molti, la sua recita orienterebbe gli eventi del mondo in una determinata direzione e sarebbe stata decisiva nello stabilire l’esito di eventi importanti come la battaglia di Lepanto del 1571. Consentirebbe, inoltre, ai suoi devoti di essere immuni da eventi apocalittici, come l’esplosione della bomba atomica!

Alla recita sistematica del rosario sono inoltre associati precisi effetti psicosociali, psicofisici, comunicativi, persuasivi, pragmatici. Ad esempio, la storia ha dimostrato che esso può svolgere una funzione narcotizzante e anestetica nei confronti delle proteste sociali e religiose con la conseguente soppressione di ogni anelito rivoluzionario. Sociologicamente, esso si configura come un dispositivo disciplinare per tenere buone le masse e impedire loro di pensare con la propria testa. Ma il rosario può instillare anche pace e tranquillità, oltre che essere esibito come simbolo identitario ed estetico.

Insomma, il rosario è un oggetto estremamente complesso sul quale convergono suggestioni sociologiche, psicologiche, antropologiche, storiche, mediche insospettabili, che lo rendono singolarmente unico.

Attraverso un’analisi condotta con gli strumenti delle scienze umane, il testo propone, per la prima volta, una approfondita analisi storica e psicosociologica del rosario, illustrando la polifonia, la ricchezza semantica, le contraddizioni, ma anche l’importanza di un dispositivo ingiustamente trascurato, ma che ha avuto e ha ancora un ruolo importante nell’immaginario collettivo, non solo dei cattolici, e che ha ricevuto ampia tematizzazione da parte delle autorità cattoliche dal Medioevo ad oggi. Al riguardo, va ricordato che il rosario è la devozione extraliturgica più famosa associata al cattolicesimo.

Il tentativo è quello di avvicinare intellettualmente il rosario come fatto sociale complesso nella convinzione che il suo studio riveli aspetti interessanti dell’agire umano e religioso in particolare.

Da questo punto di vista, il volume cattura l’attenzione di sociologi, psicologi e storici, in primis, è di chiunque sia desideroso di vedere applicata a un oggetto apparentemente banale l’immaginazione sociologica di cui parlava Charles Wright Mills. Ne risulta un quadro estremamente accattivante e variegato in cui santi, sacerdoti e pontefici procedono a braccetto con sociologi, psicologi e storici come non è mai accaduto nella storia di una devozione religiosa. Un quadro che interesserà uomini di fede profonda come agnostici e atei radicali; studiosi e semplici curiosi. In definitiva, un libro per tutti.

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Come l’economia venne ad essere definita la “scienza triste”

Perché l’economia è definita dismal science, ovvero “scienza triste”, “cupa”, “desolata”, “abietta”, “angosciante”? Forse perché, con tutti i grafici, le teorie astruse, le formule matematiche di cui abbonda nei suoi manuali, offre ai lettori un’immagine arida e grigia della disciplina e della realtà sociale a cui essa è applicata? Forse perché la rappresentazione dell’homo oeconomicus propagandata dalla teoria economica classica – rappresentazione che contempla un uomo meramente razionale, ossessivamente preciso nei suoi calcoli e attento esclusivamente al proprio tornaconto personale – appare eccessivamente asfittica e avvilente nei confronti della complessità umana?

Se ancora oggi l’economia attira critiche feroci da parte dei suoi detrattori, amareggiati anche dal ripetuto fallimentare profetismo dei suoi adepti, le origini del termine dismal science non sono affatto recenti e non hanno nulla a che fare con l’evoluzione della scienza economica nella contemporaneità.

Esse risalgono, invece, a un articolo del 1849 dello scrittore scozzese Thomas Carlyle, intitolato “Occasional Discourse on the Negro Question” e pubblicato in forma anonima nella rivista londinese Fraser’s Magazine for Town and Country.

Ma perché, nel lontano 1849, Carlyle elesse l’economia a bersaglio dei suoi strali? Perché… l’economia si opponeva alla schiavitù, da lui invece considerata positivamente. Il liberismo, infatti, considerava caratteristiche come la razza analiticamente irrilevanti. La legge della domanda e dell’offerta faceva piazza pulita di ogni distinzione nazionalistica, religiosa, di istruzione, di classe sociale, razziale a favore della logica del libero mercato. Per essa l’unica attività che distingue l’essere umano dalla bestia è lo scambio commerciale.

Rifacendosi ad Adam Smith e al suo Wealth of Nations (1776), gli economisti classici sostenevano, in base all’assioma della scelta razionale, che non vi sono differenze naturali tra gli individui, non vi sono “padroni naturali”, non vi sono “schiavi naturali”. Tutte le differenze tra gli esseri umani possono essere spiegate dagli incentivi, dalla storia, dai costumi e dalle abitudini.

Se, dunque, Carlyle definì la scienza economica una dismal science, ciò avvenne perché essa possedeva delle caratteristiche e una visione del mondo che oggi consideriamo positive in quanto presuppongono un essere umano libero e uguale a tutti gli altri esseri umani.

Se desiderate sapere di più su questa vicenda e sulle sue paradossali evoluzioni, vi invito a leggere qui la mia traduzione – la prima in italiano, a mia conoscenza – di “Occasional Discourse on the Negro Question”, preceduta da una introduzione che ricostruisce il contesto e i termini della genesi della dismal science. Una vicenda sicuramente interessante, degna di essere conosciuta da tutti.

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Il turismo macabro di Waterloo

Della battaglia di Waterloo del 18 giugno 1815 sappiamo tante cose. Sappiamo che le armate anglo-prussiane comandate dal duca di Wellington e dal maresciallo von Blücher sconfissero l’esercito di Napoleone. Sappiamo che tale sconfitta segnò il tramonto dell’epoca napoleonica. Sappiamo che fu una battaglia estremamente sanguinosa e che morirono almeno 20.000 soldati dell’una e dell’altra parte. Sappiamo che è una delle battaglie più studiate dagli storici, che ne hanno esaminato in maniera certosina fasi, tattiche, strategie ed errori.

Ciò su cui aleggia ancora un certo grado di incertezza è che fine abbiano fatto i cadaveri dei soldati uccisi e delle carcasse di animali morti con loro.

Alla domanda ha cercato di rispondere l’archeologo britannico Tony Pollard (2021) con l’articolo “These spots of excavation tell: using early visitor accounts to map the missing graves of waterloo”, pubblicato sul Journal of Conflict Archaeology (vol. 16, n. 2, pp. 75-113) nel 2021.

Secondo Pollard, le ossa dei cadaveri – umani e animali – di Waterloo furono progressivamente e illegalmente dissotterrate tra il 1834 e il 1860 per essere adoperate dall’industria saccarifera belga come filtri per raffinare e sbiancare lo zucchero. Una parte dei resti sarebbe stata utilizzata anche per essere trasformata in fertilizzante.

Pollard basa le proprie conclusioni sull’analisi degli scritti – memorie, articoli, lettere, testimonianze artistiche – dei primi visitatori del campo di battaglia di Waterloo dopo il 18 giugno 1815. Il luogo, infatti, può essere considerato uno dei primi ad essere stato interessato da quello che oggi chiameremmo dark tourism, ossia un turismo motivato dal desiderio di esplorare località dove sono accaduti fatti o eventi macabri e sanguinosi. Gli scritti non forniscono solo informazioni utili a comprendere il destino di tanti corpi abbandonati sul luogo, ma servono anche da guida dei luoghi di sepoltura dei cadaveri.

Secondo l’archeologo britannico, quasi 2.000 tonnellate di ossa umane e animali furono disseppellite dal campo di Waterloo e vendute all’industria saccarifera. Se si pensa che in Belgio l’ultima fabbrica del settore chiuse nel 1860, quando non ci furono più ossa di soldati da portare in superficie, non è esagerato dire che buona parte dei profitti conseguiti dai proprietari dell’industria saccarifera fu dovuta solo alla disponibilità delle ossa dei caduti in battaglia.

Di tutto questo, naturalmente, i consumatori finali di zucchero furono tenuti completamente all’oscuro. Se avessero saputo qual era la fonte del loro dolce alimento, è probabile che sarebbero inorriditi e avrebbero costretto alla chiusura le fabbriche.

Si è proprio tentati di dire che il sistema capitalistico si regge cinicamente sulla morte, per quanto violenta, degli esseri umani, oltre che, come insegna Marx, sul loro incessante sfruttamento.

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Quella civetta che non è una civetta

Internet ci dice che è un carnivoro della famiglia dei viverridi diffuso nell’Asia sud-orientale (Cina, Indonesia, Filippine ecc.). La lunghezza della testa e del corpo oscilla tra 420 e 580 mm, la lunghezza della coda tra 330 e 470 mm. Il peso, invece, può arrivare fino ai 3 kg.

Appartiene a una specie solitaria, territoriale e arboricola, esclusivamente notturna. Trascorre l’intera giornata negli alberi cavi. Si nutre prevalentemente di bacche e frutti quali mango, ananas, melone, banane. Essendo onnivoro, non disdegna piccoli uccelli, roditori ed insetti. Talvolta si arrampica e succhia la linfa da alcune specie di palme, utilizzate per produrre una bevanda alcolica chiamata “vino di palma”.

L’aspettativa di vita allo stato libero è di 14 anni, mentre in cattività è di 22 anni e 5 mesi.

Ultimamente, si è molto parlato di questo animale in quanto viene utilizzato a Bali per fornire il pregiato caffè kopi luwak, nient’altro che il prodotto di bacche di caffè mangiate e defecate in condizioni disumane in gabbie anguste dall’onnivoro di cui stiamo parlando.

Di che animale si tratta? Lo chiamano “civetta delle palme”. Un uccello, dunque? Come l’omonimo rapace notturno a noi tanto familiare?

Niente affatto. Il nome più appropriato, infatti, è “zibetto delle palme”.

Allora perché “civetta”? A causa di un marchiano errore di traduzione. In questo caso, “civetta” è il calco dell’inglese civet, che significa “zibetto”, mentre “civetta” in inglese si dice owl o little owl.

I calchi nascono di solito per pigrizia o ignoranza.

Pigrizia o ignoranza che possono trasformare uno “zibetto” in una “civetta”.

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Come una discarica divenne l’inferno

Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna (Matteo 5, 22).

Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna. E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna (Matteo 5, 29-30).

Nel Nuovo Testamento, i riferimenti alla Geenna, come quelli citati, sono alla base dell’idea che, con il tempo, ci siamo fatti dell’inferno, luogo oltremondano destinato a consumare le anime tra fiamme e tormenti indicibili.

Ciò che è curioso è che il termine Geenna designava nell’Antico Testamento un luogo reale, che gli abitanti del posto sapevano ben localizzare.

La Geenna, infatti, è un avvallamento di Gerusalemme, anticamente luogo di culto idolatrico e poi discarica dove divampava continuamente il fuoco. Il termine deriva dall’ebraico ge Innom che significa “valle di Hinnom”, nota nell’Antico Testamento anche come “valle di Ben-Hinnòn”, ossia “valle del figlio/dei figli di Innom”. La valle si trovava a sud-ovest di Gerusalemme e percorreva la valle del Cedron di fronte al moderno villaggio di Silwan.

A un certo punto, la valle divenne nota come l’altura in cui alcuni re di Giuda intrapresero pratiche religiose proibite, tra cui sacrifici umani per mezzo del fuoco, associate ai riti di Moloch e Tofet. Per questo motivo, il profeta Geremia parlò del giudizio che pendeva su di essa e della sua distruzione (Geremia 7, 30-34):

I figli di Giuda hanno fatto ciò che è male ai miei occhi, dice il SIGNORE; hanno collocato le loro abominazioni nella casa sulla quale è invocato il mio nome, per contaminarla. Hanno costruito gli alti luoghi di Tofet nella valle del figlio di Innom, per bruciarvi nel fuoco i loro figli e le loro figlie; cosa che io non avevo comandata e che non mi era venuta in mente. Perciò, ecco, i giorni vengono, dice il SIGNORE, che non si dirà più Tofet né la valle del figlio di Innom, ma la valle del massacro, e, per mancanza di spazio, si seppelliranno i morti a Tofet. I cadaveri di questo popolo serviranno di pasto agli uccelli del cielo e alle bestie della terra; e non ci sarà nessuno che li scacci. Farò cessare nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme il grido di gioia e il grido di esultanza, il canto dello sposo e il canto della sposa, perché il paese sarà una desolazione.

Fu Giosia a mettere fine a queste pratiche distruggendo e gettando la maledizione sulla valle di Innom, che divenne una discarica pubblica (2Re 23, 10).

Nell’Antico Testamento, dunque, quando si parla della Geenna, si parla di un luogo reale e concreto, geograficamente individuabile.

Nel Nuovo Testamento, invece, in Matteo, Marco e Luca, ad esempio, il termine “Geenna” perde il suo carattere di toponimo per acquisire la dimensione metaforica di simbolo dell’inferno, dove i dannati bruciano perennemente fra le fiamme, e quindi di perdizione eterna.

La minaccia della Geenna è vissuta come qualcosa di terribile, una punizione senza tempo che strazierà le anime in modi nemmeno immaginabili.

Accade talvolta che luoghi o cose reali assumano, con il tempo, una fisionomia simbolica e vaga che si distanzia progressivamente dalla realtà finendo con il separarsene e trascenderla. In questo passaggio, essi assumono un’identità metafisica, religiosa, divina che fa dimenticare, talvolta, la loro origine terrestre, a favore di una nuova veste che tendiamo a credere generata dalla stessa divinità. In questo modo, la metafora diviene operazione divina che crea ex novo ciò che già l’uomo aveva creato, trasfigurandolo del tutto.

È così che il fulmine diviene un segno dell’ira divina, la peste una punizione inviata da Dio, un’azione cattiva diviene ontologicamente “il male”.

In questo modo, astraiamo una qualità dalla sua dimensione reale, la rendiamo metafora, poi nuova realtà trascendente e le attribuiamo un’origine divina, “cosizzandola”. Attribuiamo a Dio la genesi della nuova realtà, quando siamo noi umani ad averla metaforizzata a partire da qualcosa di sensibile ed evidente.  

Questa operazione è probabilmente a fondamento della stessa identità di Dio, proiezione di timori, aspettative, credenze molto umane, finalizzata a rassicurarci e proteggerci nella finitudine della nostra esistenza.

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